venerdì 3 giugno 2011
2 Giugno
mercoledì 30 marzo 2011
Lega: "Föra di ball"
Chi vota Lega alle prossime elezioni verrà da me disconosciuto!!!
Ecco un articolo da il Fatto
e uno da Carta
"Per costruire 12 ospedali servono 250 milioni di dollari, quel che ci costano 8 ore di guerra in Iraq...si prendessero un giorno di ferie!". Gino Strada
E per finire questa: è vecchia però mi piace
martedì 22 marzo 2011
Guerra!!!
Art 11 della Costituzione
L’Italia ripudia la guerra come strumento di offesa alla libertà degli altri popoli e come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali; consente, in condizioni di parità con gli altri Stati, alle limitazioni di sovranità necessarie ad un ordinamento che assicuri la pace e la giustizia fra le Nazioni; promuove e favorisce le organizzazioni internazionali rivolte a tale scopo.
Alla faccia della Costituzione e dei 150 anni dell''Italia siamo di nuovo in guerra...e l'unica che si oppone è la Lega!!!
L’opposizione approva l’intervento ma attacca il governo!!!
Finchè la sinistra non farà del pacifismo un valore irrinunciabile non andrà da nessuna parte. E così i cattolici.
In questo periodo storico opporsi alla guerra è la base di ogni ragionamento. Non ci sono spazi di manovra. Superata la retorica della Patria, finita la guerra fredda, svelta il lato osceno della guerra, resta solo l'interesse economico. Interesse per ciò che si può ottenere e interesse nel fare la guerra fine a sè stessa: armi, munizioni, cure, ricostruzione ecc. ecc.
Quanto ci costerà uccidere altre persone? quanto ci guadagneranno i produttori di armi edi case? Quanto sarà il prezzo del petrolio?
Linko un po' di articoli
Carta: Ci risiamo bellezza
Il Fatto: Pacifismo a vocazione suicida
Il Fatto: La guerra è un fallimento delle diplomazie
Claudio Grassi: Venti di passione vs venti di guerra
Flavio Lotti: Guerra di Libia Così non si difendono i diritti umani
giovedì 13 gennaio 2011
La violenza
Mi paice quado trovo persone serie, competenti e conosciute che dicono in modo chiaro e preciso quello che penso anch'io. Spesso fatico a spiegare le mie ragioni e non sempre ho tutte le nozioni per difenderle. Talvolta sono più impressioni, deduzioni, sensazioni che veri e propri ragionamenti ed avere un riscontro è utile e piacevole
Anch’io Black Bloc!
C’ero anch’io a lanciare i sassi alla polizia. E mi chiedo come abbia potuto succedere...La mia storia e' stata un po’ particolare.
Non a tutti capita che ti rapiscono la mamma e la vedi tornare a casa coperta di sangue.
Sono cose che possono farti impazzire.
Ma, devo essere sincero, questo evento tragico incontro' un terreno fertile.
Io sono cresciuto con in testa i film western e la rivoluzione comunista. Armata. Due cose che si combinavano bene insieme.
A quei tempi non c’era quasi nessuno a sinistra che pensasse che si poteva cambiare il mondo senza affrontare e distruggere l’esercito dei padroni.
E devo anche confessare che non lasciai l’Armata Rossa perche' diventai pacifista. Quello accadde dopo.
E forse potrebbe essere utile a molti, che oggi stanno pensando che e' ora “di passare ai fatti” e procurarsi una pistola, sapere come ando'.
Mia madre fu rapita a marzo, passai un mese quasi sempre in casa per starle vicino. Intanto pensavo solo a uccidere. Era l’unico pensiero che avevo in testa. A aprile tornai a scuola. Diedi due ceffoni a un fascista, di fronte a tutti, in un corridoio.
Non avevo mai colpito qualcuno e devo dire che la sensazione fu disgustosa.
In quel periodo militavo nell’ala morbida dell’Autonomia Operaia, mi presentai a un leader dell’ala militarista e mi arruolai.
Così iniziai un anno di addestramento. Perche' non e' che ti mandano a sparare così alla cavolo.
Eravamo una trentina, la colonna studentesca dell’organizzazione. Durante gli scontri di piazza ci portavamo dietro centinaia di simpatizzanti ma il livello militare era composto da una decina di ragazzi. Eravamo divisi in operativo, logistico e informativo, avevamo nomi di battaglia, studiavamo diligentemente come si costruiscono armi rudimentali sui manuali dei Marines americani e dei tupamaros e come si usano quelle vere. Imparai che prima di un’azione non bisogna mangiare niente perche' se ti sparano nella pancia a stomaco pieno muori in 15 minuti per emorragia, se sei a digiuno forse arrivi all’ospedale ancora vivo. La cosa che mi stupisce di quegli anni era che ero proprio convinto che sarei morto in combattimento o che mi sarei fatto cento anni di prigione e non me ne importava nulla. Non vedevo nessuna alternativa. Ricevetti l’ordine di tagliarmi i capelli e di andare in giro con la giacca (la cravatta non era obbligatoria). Mia nonna era contenta di vedermi finalmente “vestito da cristiano in modo decente”.
C’erano lezioni anche su come comportarci se venivamo catturati. Era scontato che ci massacrassero per farci parlare. Il nostro addestratore era pragmatico, dava per scontato che tutti parlano, ma la consegna era di resistere 24 ore per dare tempo ai compagni di scappare.
Insomma, sembrava proprio una cosa seria.
I primi dubbi mi vennero quando prima di un’azione (dovevamo incendiare alcune auto di nemici del popolo) il mio gruppo decise di andare a mangiare una pizza. Una palese violazioni degli ordini.
Lo dissi. Mi risero in faccia. Poi, come accadeva il piu' delle volte, l’azione non si svolse perche' non riuscimmo a trovare le auto da bruciare. Un errore nelle informazioni che ci avevano dato.
Così arrivai a finire il tirocinio e a passare all’azione. E lì iniziai a capire che c’era qualche cosa che non funzionava. Ricevemmo l’ordine di bruciare una decina di automobili con bombe incendiarie a tempo. Fu un disastro perche' ci fornirono indirizzi sbagliati e timer che non funzionavano.
Poi ci fecero lavorare per un paio di mesi alla preparazione di un attentato incendiario contro una multinazionale. Ma i responsabili fecero un po’ di confusione e ci incaricarono di incendiare l’immenso parco auto dell’autonoleggio Avis che non c’entrava niente (GIURO!). Ci fermarono appena in tempo. E tanta grazia che non distruggemmo l’altra Avis, quella dei donatori di sangue…
Poi scoprii che una ragazza bellissima, alla quale facevo la corte, sapeva tutto quello che succedeva in tutti i gruppi armati di Milano perche' aveva rapporti intimi con alcuni capi militari.
Mi chiesi se era saggio iniziare la lotta armata in una situazione nella quale bastava che arrestassero una ragazza con tette fantastiche per decapitare le forze rivoluzionarie nel nord Italia.
Poi durante un’altra azione, fallita come al solito, Marco Barbone abbandono' una borsa con dentro 4 bottiglie molotov chimiche. Sulla borsa c’era scritto a caratteri cubitali MARCO BARBONE e di seguito il suo numero di telefono e indirizzo. Marco si diede alla latitanza per un paio di settimane. Ma nessun poliziotto busso' mai alla sua porta. Mi chiesi se potevo iniziare la lotta armata con gente che andava in azione con il proprio nome scritto ben in evidenza sulla borsa. Poi un altro compagno, durante una spesa proletaria, perse la carta d’identita' nel supermercato. Ci avevano fatto una lezione intera sul fatto di non andare in azione con nulla che ci potesse far identificare ma evidentemente lui quel giorno era assente. Ma gli ando' liscia. Si presento' alla cassa il giorno dopo chiedendo se avevano trovato una carta d’identita'. Gliela restituirono senza che nessuno facesse domande.
Un militante di un gruppo armato con il quale avevamo rapporti stretti, fu arrestato perche' a un posto di blocco consegno' ai poliziotti due patenti. Con due nomi diversi sopra. Quando seppi che un covo delle BR era stato scoperto perche' un brigatista era stato preso con un mazzo di chiavi con su scritto l’indirizzo esatto del deposito di armi iniziai a domandarmi che cosa stesse succedendo al cervello dei rivoluzionari.
A questo punto l’organizzazione ci chiese il battesimo del fuoco. Un’azione armi in pugno. Dovevamo sparare alle gambe al preside di un liceo. Era il Grande Salto per tutta l’organizzazione perche' fino a quel momento non era stato ancora sparato neppure un colpo. Quello era il passo che ci avrebbe rapidamente portati alla lotta clandestina. Io iniziavo ad avere un po’ di dubbi sulle reali possibilita' di un’accozzaglia di distratti totali di battere militarmente le Forze Armate Italiane.
E poi non mi andava di sparare a un povero preside. Quindi usai la mia influenza per convertire i proiettili con un po’ di vernice rossa. Lo scopo dell’azione era verificare la nostra capacita' militare quindi tutto sarebbe stato realizzato come un attacco armato, con tanto di finto scontro tra auto e successivo incendio per bloccare la strada, ma non avremmo sparato.
Arrivo' il giorno dell’ultima riunione, dopo mesi di preparativi e pedinamenti. Io intanto mi ero follemente innamorato di una ragazza e stavamo per partire per il Portogallo in Luna di miele. Intervenni nel mio ruolo di commissario politico della cellula operativa, ribadendo le ragioni che ci avevano fatto decidere l’azione e poi dissi: “Io mi sono innamorato e sto per partire, quindi non vorrei essere arrestato. Propongo di rimandare l’azione a settembre.” Mi aspettavo urla, accuse di tradimento, minacce. Invece tutti accettarono istantaneamente di rimandare. La cosa mi sconvolse. Ero pronto alla rissa e invece…
Così capii che con quei rivoluzionari non sarei riuscito a combinare niente.
Andai in Portogallo, lei mi lascio' per un brasiliano bellissimo incontrato lì, in una comune di Lisbona e io tornai in Italia con un ascesso devastante a un dente e la faccia gonfia in modo spaventoso.
A settembre io e l’altro responsabile degli studenti ci presentammo all’esecutivo nazionale della struttura militare. Avevamo un piano. Non fu facile perche' il luogo dove si teneva la riunione era segreto. Avevi un appuntamento in un punto, passava una staffetta in moto e ti dava l’indirizzo finale. Meta' delle riunioni non si facevano perche' i delegati si perdevano.
Quando finalmente si riuscì a riunirsi intervenni dicendo: “Noi siamo 200. Mettiamo che riusciamo a diventare settemila. Loro hanno l’aviazione. Come facciamo a sconfiggerli?” Quel che si dice un intervento breve e incisivo.
Una domanda semplice.
Toni Negri mi rispose con il discorso piu' fumoso che abbia mai sentito. Parlo' un’ora e poi la riunione, che doveva decidere la nostra prima vera offensiva militare, fu rimandata.
La volta successiva fu l’altro rappresentante degli studenti a porre la stessa semplice domanda e Toni rispose con lo stesso discorso. Andammo avanti così fino a novembre, bloccando l’esecutivo e prendendo il tempo per organizzare l’uscita del grosso degli studenti medi dall’organizzazione. Uscimmo in 150. E anche la maggioranza degli operai se ne andarono.
Negli anni successivi i pochi che erano restati si divisero in piccole bande, alcune delle quali arrivarono a sparare e uccidere (Toni Negri, che in fin dei conti era un moderato, senza di noi che eravamo l’ala morbida, si trovo' in minoranza e fu esautorato dai durissimi). Tra i durissimi c’era Marco Barbone, che qualche anno dopo finira' per assassinare Valter Tobagi (che per inciso era un suo amico di famiglia, lo scelsero perche' ammazzarlo era piu' facile visto che sapevano tutto di lui…).
Dopo qualche anno alcuni dei duri vennero arrestati e si vide che non erano poi tanto duri. Parlarono e denunciarono 250 compagni.
Una bella mattina del 1979 uscì sul Corriere della Sera che anche io ero tra gli incriminati per banda armata, nonostante fossi uscito prima dell’inizio della guerriglia. Alle 9,30 del mattino ero dal mio avvocato, alle 10 stavo su un treno per Parigi, senza bagagli. Avevo pero' comprato un panettone. Si era sotto Natale e volevo darmi un’aria normale.
Restai latitante all’estero per un mese poi mi dovetti rassegnare al fatto che nessuno mi dava la caccia e rientrai in Italia.
Il mio processo duro' parecchi anni. Finii nella “branchia” chiamata Rosso3, che si occupava degli imputati di basso livello, quelli sfigati. Partii con 16 imputazioni che via via cascarono soprattutto perche' ero accusato di azioni che non erano mai state eseguite.
Sono le accuse migliori perche' e' facile difenderti.
Tanto per dare l’idea del casino che fecero i pentiti, all’udienza finale prima di me c’era un ragazzo che aveva ammesso 17 rapine in banca e che pero' rigettava l’accusa per la diciottesima avanzando la scusa che quel giorno era in una cella d’isolamento sotterranea del carcere le Nuove di Torino. Dopo di lui fu ascoltato un altro militante che aveva ammesso parecchi crimini ma rigettava l’imputazione per un assalto armato a una sede del Msi adducendo la scusa di essere stato, contemporaneamente, sotto anestesia per un intervento di peritonite presso l’ospedale Fatebenefratelli di Milano. Il giudice pote' solo constatare che c’erano stati alcuni errori.
Quando il giudice mi chiese se avevo qualche cosa da dire mi alzai per spiegare che la mia generazione aveva commesso molti errori e si era macchiata di crimini violenti. Ma avevamo un’attenuante: combattevamo per un mondo migliore. La causa della nostra rabbia erano coloro che avevano attaccato i nostri cortei sparando e uccidendo, che avevano messo le bombe, i ladri e i corrotti che stavano dissanguando l’Italia… Loro non venivano mai processati per i loro immensi crimini. Il mio avvocato mi faceva le boccacce per farmi stare zitto… Ma io dissi quel che che pensavo e che penso ancora. Fino al 1979 nessun manigoldo potente era mai finito in carcere…
Col tempo, grazie al processo e a una serie di racconti di compagni usciti di prigione (a volte dopo 15 anni), scoprii alcune storie pazzesche su un paio di fatti.
Sapevo che quello che era il capo militare supremo di Rosso, Carlo Saronio, era stato ucciso, ma la controinformazione dell’Autonomia Operaia aveva sostenuto che erano stati i servizi segreti a ucciderlo. Poi venne fuori un’altra versione dei fatti: i rapitori erano dei malavitosi comunisti che avevano ricevuto l’ordine di rapirlo. A dare quest’ordine era stato il secondo capo militare supremo di Rosso. Tale Fioroni. Si disse che avevano usato troppo cloroformio e Saronio aveva avuto un infarto.
Fioroni poi fu catturato con in mano i soldi del riscatto, fu tra i piu' notevoli pentiti, per numero di incriminati. Denuncio' anche me. Non mi conosceva ma evidentemente nonostante la segretezza sapeva che, nel 1974, facevo ancora parte del gruppo. Essere figlio di persone famose in questi casi non e' un vantaggio… Gli avevano riferito che avevo dato fuoco a una serie di colonnine per dare l’allarme alla polizia che erano state sistemate in varie zone di Milano. Per mia fortuna anche questo attentato non era mai stato realizzato…
In realta' non era stato neppure progettato da noi…
Poi scoprii che alcuni sostenevano che questo Fioroni si trovasse sotto il traliccio sul quale morì Feltrinelli. Tutti ci eravamo chiesti come poteva Feltrinelli andare a piazzare una carica di esplosivo con la spoletta gia' innestata… va beh che erano tutti pazzi ma questo sembrava eccessivo. Altri parlavano di soldi e armi spariti dopo la morte dell’editore guerrigliero.
Incontrai anche militanti di altre organizzazioni armate, usciti dopo aver scontato pene dai dieci anni in su e chiesi loro di raccontare le loro storie. Volevo sapere se solo il nostro gruppo era pieno di distratti e criminali. Le storie che ho raccolto sono veramente incredibili e mostruose.
La piu' agghiacciante e' il racconto di quel che successe a Torino quando Prima Linea decise di ammazzare “qualche agente” per vendicare l’uccisione di quattro militanti che, secondo la controinformazione, erano stati giustiziati nel sonno (non so se fosse la verita'). Fattosta' che quattro guerriglieri si appostano, due in un bar e due di fronte, sono armati fino ai denti. Chiamano le forze dell’ordine dicendo che e' in corso una rissa. Arriva una macchina, 3 agenti entrano nel bar e vengono presi in mezzo da un fuoco intenso di due pistole, un fucile a canne mozze e una mitraglietta. Rispondono al fuoco svuotando i caricatori. Un pandemonio. Si sparano addosso per cinque minuti e nessuno dei contendenti viene colpito. Un proiettile vagante uccide pero' un povero ragazzo che passava di lì.
Per motivi di parita' sessuale avevano dato la mitraglietta all’unica ragazza del gruppo. Che sparando un’ultima raffica colpisce la gamba di un compagno, che peraltro pare fosse anche il suo fidanzato. Il che ha fatto sorgere varie congetture.
Il nucleo si ritira trascinandosi dietro il ferito che perde sangue dalla gamba crivellata. Da una cabina telefonica chiamano il numero di emergenza per avere l’indirizzo del pronto soccorso clandestino. Risponde un dirigente di Prima Linea che a fatica ammette che hanno mentito: non esiste nessun pronto soccorso clandestino. Allora quelli del nucleo di fuoco dicono: “Ok, veniamo lì e vi ammazziamo tutti.” Il ferito intanto rischia di morire. Mentre loro si dirigono verso il covo della direzione, quelli cercano un medico per evitare di essere giustiziati come traditori bastardi. Riescono a contattare quelli di Rosso che il pronto soccorso mobile ce l’aveva veramente. Parte un’auto da Milano. Arrivano a Torino e improvvisano una sala operatoria. Hanno una macchina per le radiografie. Ma e' del tipo che usano i dentisti. Così devono fare 30 radiografie di 4 centimetri per 4 e attaccarle con il nastro adesivo per avere il quadro di tutta la gamba. Ovviamente sbagliano un paio di cose e il ferito poi restera' zoppo.
Negli anni scoprii anche che la nostra controinformazione raccontava parecchie balle. Ad esempio, Potere Operaio nel 1973, convinse tutti che i suoi militanti non erano colpevoli dell’incendio nel quale morirono i fratelli Stefano e Virgilio Mattei, Stefano era un bimbo di otto anni. Così, nel 1974, mi trovai a realizzare un libro a fumetti nel quale si sosteneva, tra l’altro, la versione di Potere Operaio, che fu accettata subito da tutto il Movimento (solo recentemente gli autori di quel crimine hanno confessato…).
Sarebbe stato per noi inconcepibile scoprire che dei compagni erano responsabili della morte di un bambino. Ma era proprio così.
Spero che queste storie possano far riflettere qualche giovane black bloc su quel che sta facendo.
Penso che in mezzo ai ragazzi che distruggono le vetrine e incendiano le auto oggi non ci siano solo provocatori… ci siano parecchi che agiscono in buona fede, convinti come lo eravamo noi, che passare alla violenza sia l’unico modo per reagire alle ingiustizie.
Raccontare qui le ragioni della scelta pacifista e dell’idea che con la violenza non si arriva mai a niente di buono sarebbe lungo (ho spiegato la mia conversione al pacifismo in un libro uscito nel 1980: “Come fare il comunismo senza farsi male”)
E forse a un ragazzo che e' caduto nella trappola della via militare a un mondo migliore, questi racconti sull’idiozia dei violenti possono far sorgere dubbi piu' di qualunque discorso teorico.
Come ho detto la mia fede nella lotta armata inizio' a vacillare quando mi resi conto che ero circondato da dementi (e forse anch’io non ero troppo lucido).
Quel che capii e' che la violenza e' fisiologicamente legata alla stupidita' e alla disonesta'. Sono le persone peggiori quelle che hanno piu' probabilita' di fare carriera e arrivare ai vertici di un’organizzazione militare segreta. Il crimine e' ovviamente parente della violenza: si attraggono. Chi e' senza scrupoli e' spesso piu' bravo a menar le mani. E i piu' coraggiosi nelle battaglie sovente sono solo i piu' cretini e incoscienti.
Al di la' delle ragioni strategiche e morali la violenza e' sempre sbagliata perche' puoi star certo che gli stupidi, i mediocri e i criminali prendono il sopravvento.
Non c’e' modo di evitarlo. E’ la natura della guerra.
Racconti analoghi me li faceva mio nonno Felice Fo sulla Resistenza. Lui era tenente del Cnl e dopo il 25 aprile del 1945, aveva autonomamente deciso di formare una squadra di partigiani che andavano a bloccare le esecuzioni sommarie che alcuni partigiani veri criminali e alcuni criminali falsi partigiani, stavano organizzando per regolare conti in sospeso o semplicemente per appropriarsi di denaro e altri beni. Arrivavano nei paesi sul lago Maggiore e armi alla mano si facevano consegnare i prigionieri. Liberavano quelli che evidentemente erano solo vittime di un crimine e quelli che avevano qualche reale responsabilita' li portavano in carcere perche' fossero processati. Salvo' parecchi fascisti come prima aveva salvato parecchi ebrei, portandoli clandestinamente in svizzera approfittando del fatto che era ferroviere.
La banalita' del bene…
E credo che sia un peccato che siano pochi i libri scritti dai reduci della fallita rivoluzione comunista italiana che raccontano la verita' dell’orrenda stupidita' militarista.
Anche a molti che si sono sinceramente ravveduti scoccia raccontare quant’eravamo coglioni e tragicamente ridicoli.
Così tralasciano i particolari imbarazzanti.
Io quindici anni fa decisi di raccontare una storia di quegli anni ben diversa da quelle che circolano. Insieme a Sergio Parini scrivemmo “1968. C’era una volta la rivoluzione” per Feltrinelli.
Se quanto ti ho detto non ti ha convinto e decidi che la guerriglia e' l’unica via per salvare il mondo, ti chiedo almeno di prefiggerti di farla bene. Se vuoi evitare di trovarti con una decina di pentiti che ti accusano di parecchi reati scegli molto attentamente i tuoi compagni di lotta.
Se un cretino di offre una pistola riflettici: se e' pirla non puoi fidarti.
Quindi se una persona ti sta offrendo una pistola prima di accettare chiediti se e' tra le persone migliori che conosci.
Se ti rifiuti di prendere una pistola dalle mani di un pirla non diventerai mai un terrorista. E’ un sistema infallibile.
PS
Due anni fa i giornali hanno pubblicato i nomi dei criminali che hanno rapito e seviziato mia madre.
Sinceramente ho passato un giorno intero a chiedermi se era il caso di prendere la macchina e andare ad ammazzarli uno per uno. Poi ho deciso di non farlo. Non e' stato facile. Io non perdono niente, solo trovo che ucciderli non cambierebbe nulla, non risarcirebbe in nessun modo mia madre per quello che ha patito. Non le darebbe nessuna soddisfazione se io le consegnassi il cuore di quegli esseri. Mia madre ha bisogno di un figlio che l’abbracci. I proiettili non danno la serenita'.
Mai.
(La vendetta comunista e' una stronzata.)
martedì 19 ottobre 2010
Guerra in afghanistan: missione di pace?
Stiamo entrando nel decimo anniversario della guerra contro l’Afghanistan: è un momento importante per porci una serie di domande.
In quel lontano e tragico 7 ottobre 2001 il governo USA, appoggiato dalla Coalizione Internazionale contro il terrorismo, ha lanciato un attacco aereo contro l’Afghanistan. Questa guerra continua nel silenzio e nell’indifferenza, nonostante l’infinita processione di poco meno di 2.000 bare dei nostri soldati morti. Che si tratti di guerra è ormai certo, sia perché tutti gli eserciti coinvolti la definiscono tale, sia perché il numero dei soldati che la combattono e le armi micidiali che usano non lasciano spazio agli eufemismi della propaganda italiana che continua a chiamarla “missione di pace”. Si parla di 40.000 morti afghani (militari e civili), e il meccanismo di odio che si è scatenato non ha niente a che vedere con la pace. Come si può chiamare pace e desiderare la pace, se con una mano diciamo di volere offrire aiuti e liberazione e con l’altra impugniamo le armi e uccidiamo?
La guerra in Afghanistan ha trovato in Italia in questi quasi 10 anni unanime consenso da parte di tutti i partiti – soprattutto quando erano nella maggioranza – e di tutti i governi. Rileggere le dichiarazioni di voto in occasione dei ricorrenti finanziamenti della “missione” rivela – oltre devastanti luoghi comuni e diffuso retorico patriottismo – un’ unanimità che il nostro Parlamento non conosce su nessun argomento e problema. Perché solo la guerra trova la politica italiana tutta d’accordo? Chi ispira questo patriottismo guerrafondaio che rigetta l’articolo 11 della nostra Costituzione?
L’elenco degli strumenti di morte utilizzati è tanto lungo quanto quello dei cosiddetti “danni collaterali” cioè 10.000 civili, innocenti ed estranei alla stessa guerriglia, uccisi per errore. Ma la guerra non fa errori, poiché è fatta per uccidere e basta.
Noi vogliamo rompere le mistificazioni, le complicità e le false notizie di guerra che condannano i cittadini alla disinformazione, che orientano l’opinione pubblica a giustificare la guerra e a considerare questa guerra in Afghanistan come inevitabile e buona. La guerra in Iraq, i suoi orrori e la sua ufficiale conclusione hanno confermato negli ultimi giorni la totale inutilità di queste ‘missioni di morte’. Le sevizie compiute nel carcere di Abu Ghraib e in quello di Guantanamo, i bombardamenti al fosforo della città di Falluja nella infame operazione Phantom Fury non hanno costruito certo né pace né democrazia, ma hanno moltiplicato in Iraq il rancore e la vendetta. Altrimenti perché sono orami centinaia i soldati degli Stati Uniti, del Canada e del Regno Unito che si suicidano, dopo essere tornati dall’ Iraq e dall’ Afghanistan? Cosa tormenta la coscienza e la memoria di questi veterani? Cosa hanno visto e cosa hanno fatto che non possono più dimenticare?Dall’inizio della guerra in Afghanistan ci sono più morti fra i soldati tornati a casa che tra quelli al fronte :si susseguono i suicidi dei veterani negli USA.
Tutto il XX secolo ha visto la nostra nazione impegnata a combattere guerre micidiali ed inutili nelle quali i cattolici hanno offerto un decisivo sostegno ideologico. Ancora troppo peso grava sulla coscienza dei cattolici italiani per avere esaltato, pregato e partecipato alla I guerra mondiale e tanto più ancora all’omicida guerra coloniale in Abissinia.”Ci presentavano l’Impero come gloria della patria!- scriveva Don Milani nella celebre lettera ai giudici L’obbedienza non è più una virtù.Avevo 13 anni. Mi pare oggi. Saltavo di gioia per l’Impero. I nostri maestri si erano dimenticati di dirci che gli Etiopici erano migliori di noi. Che andavamo a bruciare le loro capanne con dentro le loro donne e i loro bambini, mentre loro non ci avevano fatto proprio nulla. Quella scuola vile, consciamente o inconsciamente non lo so, preparava gli orrori di tre anni dopo… E dopo essere stato così volgarmente mistificato dai miei maestri….vorreste che non sentissi l’obbligo non solo morale, ma anche civico, di demistificare tutto?”
Forse conoscere la storia dei tanti eccidi criminali compiuti dai militari, dagli industriali, dai servizi segreti nella nostra storia contemporanea aiuterà i giovani a formarsi una coscienza politica e un senso critico. Tanto da renderli immuni dalla propaganda che vuole soltanto carpire consenso e impegnarli in imprese di morte come la guerra in Afghanistan, nella quale facciamo parte di una coalizione che applica sistematicamente la tortura – come nel carcere di Bagram e nelle prigioni clandestine delle basi Nato – e le esecuzioni sommarie.
Chi dunque ha voluto e vuole questa guerra afghana che ci costa quasi 2 milioni di euro al giorno?Chi decide di spendere oltre 600 milioni di euro in un anno per mantenere in Afghanistan 3300 soldati, sostenuti da 750 mezzi terrestri e 30 veicoli? Come facciamo tra poco ad aggiungere al nostro contingente altri 700 militari? Quante scuole e ospedali si potrebbero costruire? Chi sono i fabbricanti italiani di morte e di mutilazioni che vendono le armi per fare questa guerra? Chi sono gli ex generali italiani che sono ai vertici di queste industrie? Che pressioni fanno le industrie militari sul Parlamento per ottenere commesse di armi e di sistemi d’arma? Quanto lucrano su queste guerre la Finmeccanica, l’Iveco-Fiat, la Oto Melara, l’Alenia Aeronautica e le banche che le finanziano? E come fanno tante associazioni cattoliche ad accettare da queste industrie e da queste banche elargizioni e benefici? Può una nazione come l’Italia che per presunte carenze economiche riduce i posti letto negli ospedali, blocca gli stipendi, tiene i carcerati in condizioni abominevoli e inumane, licenzia gli insegnanti, aumenta gli studenti per classe fino al numero di 35, riduce le ore di scuola, accetta senza scomporsi che una parte sempre più grande di cittadini viva nell’indigenza e nella povertà, impegnare in armamenti e sistemi d’arma decine di miliardi di euro? A cosa serviranno per il nostro benessere e per la pace i cacciabombardieri JSF che ci costano 14 miliardi di euro (quanto ricostruire tutto l’ Abruzzo terremotato)? E le navi FREM da 5,7 miliardi di euro? E la portaerei Cavour – costata quasi 1,5 miliardi e per il cui esercizio sprechiamo in media circa 150.000 euro al giorno – come contribuirà a costruire la pace?E come è possibile che il Parlamento abbia stanziato 24 miliardi di euro per la difesa nel bilancio 2010? Chi sottoscrive questo appello vuole soltanto che in Italia si risponda a queste domande.
Rispondano i presidenti del Consiglio di questi ultimi 10 anni, i ministri della difesa e tutti parlamentari che hanno approvato i finanziamenti a questa guerra. Dicano con franchezza che questa guerra si combatte perché l’Afghanistan è un nodo strategico per il controllo delle energie , per il profitto di alcuni gruppi industriali italiani, per una egemonia economica internazionale, per una volontà di potenza che rappresenta un neocolonialismo mascherato da intenti umanitari e democratici, poiché questi non si possono mai affermare con armi e violenza.
Facciamo nostre le parole profetiche di una grande donna indiana Arundathi Roy, scritte in quel tragico 7 ottobre 2001: “Il bombardamento dell’Afghanistan non è una vendetta per New York e Washington. E’ l’ennesimo atto di terrorismo contro il popolo del mondo. Ogni persona innocente che viene uccisa deve essere aggiunta, e non sottratta, all’orrendo bilancio di civili morti a New York e Washington. La gente raramente vince le guerre, i governi raramente le perdono. La gente viene uccisa. I governi si trasformano e si ricompongono come teste di idra. Usano la bandiera prima per cellofanare la mente della gente e soffocare il pensiero e poi, come sudario cerimoniale, per avvolgere i cadaveri straziati dei loro morti volenterosi”.
Mons. Raffaele Nogaro, Vescovo Emerito di Caserta
P. Alex Zanotelli; P. Domenico Guarino – Missionari Comboniani – Sanità Napoli
Suor Elisabetta Pompeo; Suor Daniela Serafin; Suor Anna Insonia – Missionarie Comboniane Torre Annunziata
Suor Rita Giaretta; Suor Silvana Mutti; Suor Maria Coccia; Suor Lorenza Dal Santo – Comunità Rut – Suore Orsoline
P.Mario Pistoleri; P.Pierangelo Marchi; Padre Giorgio Ghezzi – Sacramentini – Caserta
P.Antonio Bonato – missionari Comboniani – Castelvolturno (Caserta)
Don Giorgio Pisano – Diocesano – Portici (Napoli)
giovedì 22 aprile 2010
Ricordi di Guerra
Prima guerra mondiale, fronte: mio nonno Nicola autista del camion 18-bl.
Si rompe un pezzo e si reca in officina, lì gli fanno un sacco di storie dicendo che ha rotto lui il pezzo apposta per non lavorare e gli addebitano il costo.
Mio nonno, un tipo non tanto tranquillo, si arrabbia moltissimo e fra le varie imprecazioni dice: "At brusez l'uffizeina" "Ti bruciasse l'officina".
Torna in caserma e a meta' notte lo svegliano, si vedono delle fiamme altissime: e' l'officina che brucia!!! Mio nonno contentissimo inizia a dire: "Bhe, A io cher, a io piasair, a l'ho det me, caragna d'un imbezell" "Ce l'ho caro (alla lettera), mi fa piacere, l'ho detto io, carogna di un imbecille!"
Nella mia famiglia "A io cher" e diventato un modo di dire ogni volta che succede qualcosa che si era augurato
Seconda guerra mondiale.
Dopo l'otto settembre, tedeschi in fuga, uno entra in casa di uno zio di mia madre e in italiano stentato dice: "Sala, sala" voleva del sale.
Lo zio lo guarda confuso e poi pensa: "Ca voia dla fareina zala?" "Che voglia della farina gialla?" la porta al tedesco che guarda perplesso e dice: "Questo sala?"
L'idea che il tedesco cercasse di parlare in bolognese secondo me e' mitica!!
Seconda guerra mondiale. Manifestazione in piazza a Savigno
Sale sul palco uno e comincia a dire in bolognese: "Par qual stronz, d'un sfighe, d'un zgrazie', d'un inbezell dal duce: aleeeeeeeeee" "Per quello stronzo, d'uno sfigato, di un disgraziato, di un imbecille del duce: aleee"
E tutti in coro compresi i tedeschi: "Aleeeeee!"
"E par qual stopid, d'un delinquant, d'un porc dal fhurer: aleeeeee" "e per quello stupido, di un delinquente, di un porco del fhurer: Aleeee"
E tutti di nuovo "Aleeeeeeee"
Simpatia popolare
giovedì 25 marzo 2010
Follie preferenziali
preferisco ammazzare il tempo, preferisco sparare cazzate, preferisco fare esplodere una moda, preferisco morire d'amore, preferisco caricare la sveglia, preferisco puntare alla roulette, preferisco il fuoco di un obiettivo, preferisco che tu rimanga vivo.
Povero Dio tirato in ballo dagli uomini, ma che religioni, sono questioni da economi, questi omini minimizzano rombi di bolidi, boom, fanno sempre i loro porci comodi, nel nome del Padre figli che si fanno invalidi, senti solo alibi squallidi, danno ragione solamente a visi pallidi, quelli diversi riversi ed esanimi. Partono plotoni di uomini di uomini, verso postazioni di uomini di uomini, aggressori con volti di uomini di uomini, aggrediscono figli di uomini di uomini, in un circo massimo di uomini di uomini, nell'Anno Domini di uomini di uomini, subiamo il fascino di uomini di uomini, come ninfomani di uomini di uomini. Non vengo con te nel deserto, scusami se diserto ma preferisco... Io preferisco ammazzare il tempo, preferisco sparare cazzate, preferisco fare esplodere una moda, preferisco morire d'amore, preferisco caricare la sveglia, preferisco puntare alla roulette, preferisco il fuoco di un obiettivo, preferisco che tu rimanga vivo. Gli uomini versano il tributo di nostalgie per epoche che mai hanno vissuto la bandiera e il saluto, o con noi o stai muto, questo è il terzo millennio, benvenuto! Chiedo aiuto a Newton, Isacco, come cacchio si fa a sopportare fatti di 'sta gravità? Anacronistica, la verità che viene a galla, esperto di balistica misurami 'sta balla e seguimi in questo viaggio tra santi e demoni, che invece sono solo uomini di uomini, tu che sei forte, alla morte sopravvivimi, io sono debole quindi l'anima minami, caro paese dalle belle pretese chiedimi se ti vedo come friend o come enemy, ti piace fare la pace ma allora spiegami 'sti missili che fischiano nell'aria come un theremin. Non vengo con te nel deserto, scusami se diserto ma preferisco... Io preferisco ammazzare il tempo, preferisco sparare cazzate, preferisco fare esplodere una moda, preferisco morire d'amore, preferisco caricare la sveglia, preferisco puntare alla roulette, preferisco il fuoco di un obiettivo, preferisco che tu rimanga vivo. Partono plotoni di uomini di uomini, verso postazioni di uomini di uomini, aggressori con volti di uomini di uomini, aggrediscono figli di uomini di uomini, in un circo massimo di uomini di uomini, nell'Anno Domini di uomini di uomini, subiamo il fascino di uomini di uomini, come ninfomani di uomini si ma... Io preferisco ammazzare il tempo, preferisco sparare cazzate, preferisco fare esplodere una moda, preferisco morire d'amore, preferisco caricare la sveglia, preferisco puntare alla roulette, preferisco il fuoco di un obiettivo, preferisco che tu rimanga vivo.
giovedì 17 settembre 2009
Altri 6 morti italiani in Afghanistan!!!
venerdì 20 febbraio 2009
La notizia del giorno
... e' il decreto anti-stupri.
Alcune cose buone mischiate ad altre pessime e di pura propaganda. Inasprimento delle pene ok, ma no agli arresti domiciliari, bho? e poi i mezzo le norme anti-clanedstini tanto per agganciare ancora stupri e immigrazione, anche se il 70 % delle violenze avviene in casa o da parte di ex-mariti e compagni.
Ma il problema e' che la vera notizia del giorno dovrebbe essere questa: Larghe intese sulla guerra Per la partecipazione italiana alla missione Nato in Afghanistan (Isaf) sono stati stanziati oltre 242 milioni di euro per i prossimi sei mesi, ovvero circa 40 milioni al mese. Ma questa la trovate solo sul sito di Peace Reporter
giovedì 8 gennaio 2009
La bambina è sacra, il resto non conta
Un intervista al Card. Martino pubblicata su il sussidiario, in cui si insiste sul dialogo e la necessita' di porre l'uomo al centro dell'azione politica e sociale e si ha il coraggio di affermare che la striscia di Gaza è “un grande campo di concentramento”
Un sempre interessante intervento di Jacopo Fo sulla violenza la non-violenza e le esperienze di risoluzione dei conflitti
Il post Cinque sorelle possono bastare... dal blog di Beppe Grillo da cui traggo il titolo del post
L'omelia del Papa in occasione della 42esima giornata mondiale per la pace in cui si collega lotta alla povertà con riscoperta della sobrietà e della solidarietà
Il messaggio per la celebrazione della giornata mondiale della pace molto profondo e completo in cui si affrontano tutte le tematiche politiche, giuridiche, sociali connesse alla povertà materiale e spirituale
Mi piace notare come queste opinioni vengano da persone di 'buona volontà' di diversi schieramenti: sacerdoti, uomini di spettacolo, di 'sinistra' e di 'destra' (per quello che ormai vuol dire ), ma tutti animati dalla stessa sollecitudine per l'uomo e il suo 'bene'.
ISRAELE/ Card. Martino: raccogliamo i frutti dell’egoismo. L’unica speranza è il dialogo
Mentre il conflitto tra Israele e Hamas va avanti con rinnovata ostilità, il Papa è tornato ad invocare il dialogo come unica strada possibile per costruire la pace in Terra Santa. Secondo il cardinale Renato Raffaele Martino, presidente del Pontificio Consiglio per la Giustizia e la Pace, la soluzione più ragionevole rimane quella del dialogo tra israeliani e palestinesi. Essi sono fratelli, figli della stessa terra. Purtroppo «nessuno vede l’interesse dell’altro. Ma le conseguenze dell’egoismo sono l’odio per l’altro, la povertà e l’ingiustizia. E a pagare sono sempre le popolazioni inermi. Impariamo dall’Iraq».
Eminenza, nella sua omelia del 1° gennaio Benedetto XVI ha affermato che la vera pace è “opera della giustizia” e che «anche la violenza, l’odio e la sfiducia sono forme di povertà – forse le più tremende – da combattere». Perché il dialogo è l’unica condizione della pace?
L’alternativa al dialogo è solamente il ricorso alla forza e alla violenza. Ma la violenza non risolve i problemi e la storia è piena di conferme. L’ultimo esempio è quello della guerra in Iraq. Cosa ha risolto? Ha complicato le cose. La diplomazia della Santa Sede sapeva bene Saddam era pronto ad accettare le richieste delle Nazioni Unite. Ma non si è voluto aspettare. In Terra Santa vediamo un eccidio continuo dove la stragrande maggioranza non c’entra nulla ma paga l’odio di pochi con la vita. Abbiamo appena celebrato i trent’anni della mediazione tra Cile e Argentina, di cui la Santa sede a suo tempo fu grande promotrice. Quello è stato un frutto del dialogo.
Che cosa manca nello scenario mediorientale per intraprendere la strada del dialogo?
Un senso più acuto della dignità dell’uomo. Nessuno vede l’interesse dell’altro, ma solamente il proprio. Ma le conseguenze dell’egoismo sono l’odio per l’altro, la povertà e l’ingiustizia. A pagare sono sempre le popolazioni inermi. Guardiamo le condizioni di Gaza: assomiglia sempre più ad un grande campo di concentramento.
Eminenza, durante l’Assemblea plenaria del Consiglio Giustizia e Pace, commentando la Populorum progressio, Lei affermò «non c’è sviluppo senza un disegno su di noi e senza noi come disegno»; e che per questo lo sviluppo non è «qualcosa di facoltativo, ma un dovere da assumere». Alla luce degli ultimi avvenimenti che compiti impone questa considerazione?
Abbiamo appena celebrato i quarant’anni della stupenda enciclica di Paolo VI Populorum progressio, dove Paolo VI ha detto che “lo sviluppo è il nuovo nome della pace”. Benedetto XVI non ha mancato di richiamarlo nel suo Messaggio per la celebrazione della giornata mondiale della pace. Se si vuole costruire la pace occorre favorire lo sviluppo, non solo lo sviluppo dei paesi ma quello personale, di ogni uomo. La stessa assistenza alle nazioni in via di sviluppo non può essere un’elemosina, ma dev’essere un partenariato, un aiuto a far divenire tutti protagonisti del proprio sviluppo. Solo così l’aiuto a tutti può diventare aiuto allo sviluppo di ciascuno. Questo vale naturalmente anche e soprattutto per il Medio Oriente.
Come interroga la coscienza di un cristiano quello che accade in Terra Santa? Come mai questa terra, molto più di altre, appare lontana dalla pace e ogni tentativo di raggiungerla sembra frustrato in partenza?
Non siamo solamente noi cristiani a chiamarla Terra Santa, ma anche ebrei e i musulmani. E sembra una disdetta che proprio questa terra debba essere il teatro di tanto sangue. Ma occorre una volontà da tutte e due le parti, perché tutte e due sono colpevoli. Israeliani e palestinesi sono figli della stessa terra e bisogna separarli, come si farebbe con due fratelli. Ma questa è una categoria che il “mondo”, purtroppo, non comprende. Se non riescono a mettersi d’accordo, allora qualcun altro deve sentire il dovere di farlo. Il mondo non può stare a guardare senza far nulla.
Nonostante le continue esortazioni delle diplomazie, prevale una sensazione generalizzata di impotenza.
Si mandano missioni di pace in tutto il mondo, lì si sono fatte tante proposte ma i veti hanno sempre prevalso. Ora ho sentito che anche il presidente Bush ha cominciato a pensare che forse una missione di pace sarebbe auspicabile. Per cominciare sarebbe una misura efficace. Se venisse la pace tra palestinesi e israeliani, sarebbe un beneficio inestimabile per tutto il Medio oriente.
Quale compito spetta ai cristiani in quella terra martoriata?
Testimoniare la loro unità. In tutto il Medio Oriente i cristiani stanno perdendo la speranza e hanno cominciato ad andarsene, soprattutto dall’Iraq. Quando ero a New York, alle Nazioni Unite, ho incontrato moltissimi rifugiati negli Usa che mi dicevano: che futuro potevo io assicurare ai miei figli? È un grido di dolore al quale è difficile dare una risposta. Lo può fare solo la speranza che viene dalla fede. Ma al mondo questo non importa e sta a guardare.
I cristiani, ai quali quella terra appartiene al pari di ebrei e musulmani, pagano un prezzo alto ma silenzioso. Perché?
Ogni anno sono troppi i sacerdoti, i religiosi e le religiose, i missionari, i laici che perdono la vita nell’esercizio della missione più cristiana di tutte, quella di aiutare i sofferenti e i bisognosi. Perché i cristiani alla fine soffrono più degli altri? Per l’apertura del cristianesimo a considerare tutti come fratelli, mentre l’estremismo islamico non ammette né conversioni né altra religione che la propria. E questo è fonte di inimicizie e violenza.
Jacopo Fo
In fondo non è poi così grave ammazzare 100 bambini.
La mia angoscia sta salendo di giorno in giorno a causa del massacro di civili in corso nella striscia di Gaza, che si aggiunge ai bambini ammazzati in Iraq e Afghanistan e falciati dalle bombe dei terroristi in Israele e in giro per il mondo.
Il conteggio agghiacciante dei bambini uccisi cresce a velocità spaventosa.
In Palestina si stanno scontrando due popoli molto simili. Entrambi hanno al centro della loro cultura, come del resto i popoli cristiani e scintoisti, l'ideologia patriarcale della faida, della vendetta.
Nonostante 5000 anni di storia abbiano dimostrato che questa ideologia serve solo a creare sempre nuove guerre, si continua a pensare che solo la forza militare sia in grado di garantire la sicurezza di un popolo. SONO FORTE PERCHE' I MIEI VICINI HANNO PAURA DI ME PERCHE' SANNO CHE SONO DISPOSTO A UCCIDERE E MORIRE PUR DI VENDICARMI.
L'unica via per combattere il terrorismo è quella di invadere Afghanistan e Iraq e fare un milione di morti tra i civili.
L'unico modo per rispondere all'occupazione israeliana è quella di massacrare i civili israeliani e i bambini israeliani con i razzi e i kamikaze imbottiti di tritolo.
L'unico modo di fermare il terrorismo di Hamas è quello di invadere Gaza.
Quel che sembrano non capire queste menti è che uccidendo un bambino creo 10 nemici disposti a qualunque cosa pur di farmela pagare.
In 5000 anni questa esperienza si è ripetuta infinite volte, con l'unica eccezione di popoli che sono stati completamente sterminati come accadde ai galli Eburoni, cancellati dal mondo dai banditi di Giulio Cesare (creò proprio un'armata di briganti che ottennero il diritto di rubare tutte le proprietà degli Eburoni a patto che li massacrassero. E Cesare si vanta di questo nel De Bello Gallico).
Credo che anche il più scemo dei generali del Pentagono, di Hamas e di Israele sappia che non riusciranno a sterminare iracheni, israeliani e palestinesi fino all'ultimo.
Gli Eburoni erano alcune decine di migliaia. Quando quelli da sterminare sono milioni finisce sempre che ne scappa qualcuno... E se la lega al dito.
Prima dell'inizio dell'invasione di Afghanistan e Iraq, i guerrafondai ci dicevano che era l'unico modo di liberare quei popoli. Noi dicevamo che invece sarebbe stato meglio aiutare lo sviluppo economico di quella gente e cercavamo di spiegare che era cretino illudersi che la tattica dell'invasione militare avrebbe funzionato.
Sostenere veramente lo sviluppo economico e culturale di un popolo costa infinitamente meno che sparargli.
Un milione di morti dopo Iraq e Afghanistan sono un inferno, le condizioni di vita di quei popoli sono peggiorate in modo enorme e gli Usa da soli hanno già speso 2 mila miliardi di dollari in queste due invasioni. Cioè sono stati spesi più di 100 mila dollari per ogni afgano e iracheno. Immaginate quanto amore avrebbero generato gli Usa se gli avessero regalato questi soldi invece di bombardarli con proiettili all'uranio impoverito.
Se non si fidavano a darglieli direttamente in mano avrebbero potuto investirli in sviluppo, microcredito, scuole.
Sarebbe bastato un quarto di quel che hanno speso in bombe per trasformare quelle terre in succursali del paradiso.
NON SANNO QUESTI CERVELLONI, CHE IL TERRORISMO E L'ESTREMISMO RELIGIOSO SONO FIGLI DELLA POVERTA'?
Certo che lo sanno. E in realtà ammazzano per altri interessi: i soldi, il petrolio, l'oppio eccetera. Non vogliono lo svilupo di quei popoli, il caos rende di più e permette di rubare il petrolio.
Ma chi li sostiene, il cittadino Usa, l'israeliano, il palestinese, sono veramente convinti che ammazzare i nemici sia l'unica soluzione. E se ci va di mezzo un bambino (o centomila bambini) si tratta di effetti collaterali, deprecabili, ma cosa ci vuoi fare, nessuno è perfetto...
L'idea che si possa trovare un'altra via non è conosciuta.
E attenzione è un discorso che vale anche per la maggioranza dei palestinesi arroccati sulla loro ideologia patriarcale e su consuetudini che soffocano la loro società rendendola miserabile oltre misura. Se invece di investire in razzi e bombe, i militanti palestinesi avessero investito in cooperazione, istruzione e sviluppo, oggi si troverebbero ad essere capaci di competere economicamente con Israele, avrebbero raccolto un diverso sostegno internazionale alla loro causa e potrebbero usare il potere del denaro per ottenere il rispetto dei loro diritti. Invece oggi sono poveri e arretrati quasi come 40 anni fa e hanno ottenuto ben poco sul piano politico.
E la maggioranza di loro non sa neanche chi era Gandhi e come hanno fatto gli indiani a ottenere l'indipendenza e la sovranità.
Un disastro per loro e un disastro per gli israeliani. 2 popoli che vivono veramente male.
Superare questa logica sembra impossibile. La FAIDA è una religione.
Questa ideologia domina oggi il mondo e ci tiene nella merda. Ma alcuni popoli, che possiedono una cultura superiore alla nostra e più diffuse tradizioni matriarcali la pensano diversamente e risolvono i conflitti in modo più intelligente. Ad esempio ciò è avvenuto in Sud Africa.
Molti sanno che Mandela ha preso il premio Nobel. Ma i media occidentali non hanno spiegato perché. Raccontare i fatti avrebbe messo in discussione l'ideologia della faida. Sono cose che non si fanno.
Così non si parla quasi mai dei Tribunali del Perdono.
Cosa sono? Sono la dimostrazione che esiste un'alternativa alla faida.
Sud Africa: i tribunali del perdono.
Quando il regime razzista cadde Nelson Mandela capi' che doveva porre ai suoi connazionali una grande e difficile domanda. Una domanda impossibile da porre a un popolo occidentale. Incomprensibile addirittura per i nostri schemi mentali. Egli chiese: cosa dobbiamo fare a chi ci ha torturato, ucciso, tenuto in catene, umiliato? Cosa facciamo a chi ha ucciso i nostri padri, violentato le nostri madri, le nostre mogli, le nostre figlie? Cosa facciamo a quei cani che ci hanno azzannato per tutta la vita? Siamo proprio sicuri che valga la pena di ucciderli, tenerli in prigione, punirli? Fu cosi' che inizio' una grande discussione. Nessuno metteva in dubbio che un ladro o un assassino dovessero essere messi in prigione per impedir loro di compiere un altro reato e perche' venissero sottoposti a un percorso di rieducazione. Ma nel caso dei carnefici e dei loro mandanti che avevano torturato il popolo per decenni sembro' che non si potesse usare la stessa logica punitiva. Il crimine era troppo immenso perche' potesse essere punito. Quindi dopo moltissime discussioni si decise di non punire i colpevoli delle piu' tremende e barbariche violenze compiute in Sudafrica. Non sono impazzito. E' cosi' che e' andata. E hanno fatto bene. Questi neri hanno ancora una forte componente dell'antica cultura matriarcale che riconosce al suo centro, come fulcro, l'idea del valore spirituale dell'esperienza e l'interconnessione stretta tra tutti i fenomeni. E questa cultura porta piu' facilmente a identificarsi nelle vittime per comprendere quale e' la loro esigenza piu' forte e profonda. Se hai subito l'abominio, una semplice vendetta non e' soddisfacente. Non cambia l'orrore che hai vissuto, le stigmate dell'umiliazione il tormento dei ricordi e dei rimpianti. Anche se ammazzi il tuo torturatore e lo fai morire in modo lento e doloroso, la tua percezione dell'orrore vissuto non cambia. Nella cultura bantu' esiste un concetto che ha un valore maggiore della vendetta: la consolazione della vittima. Cosi' essi si chiesero che cosa potesse veramente modificare lo stato mentale delle vittime. Riscattare almeno in parte l'ingiustizia subita. E dissero: rinunciamo alla vendetta perche' l'unico medicamento che da' sollievo al dolore delle vittime e' la comprensione. Il dolore viene arginato solo dalla sua condivisione collettiva. Quando il torturato torna nel villaggio e racconta di aver subito 100 frustate anche i suoi amici si chiedono se, magari, non stia esagerando un po'. Non mettono in dubbio che sia stato frustato ma si chiedono se le frustate siano state proprio 100 oppure "solo" 70... Il torturato invece desidera innanzitutto di essere creduto totalmente, che la misura del suo dolore sia riconosciuta. Questa e' l'unica possibile, piccola consolazione. E allora il governo dei neri inventa un istituto legale incredibile: i Tribunali del Perdono. Per anni sono andati avanti a tenere udienze in questi tribunali speciali. Le vittime si presentano e raccontano tutto quello che hanno patito e fanno i nomi dei loro carnefici. I quali sono obbligati a presentarsi e a confessare raccontando per filo e per segno quali crimini hanno commesso e come. Se ammettono le colpe non vengono puniti in nessun modo. Cosi' si ottiene che nessuno possa negare la verita' di quei fatti. Non esistera' mai nessuno in Sudafrica che potra' mettere in dubbio la misura dei crimini commessi perche' vittime e carnefici hanno testimoniato, le loro dichiarazioni sono state filmate e trasmesse in televisione. Ci sono voluti anni per elencare, descrivere e comprovare l'enorme mole dei crimini commessi. Oggi c'e' chi nega i crimini nazisti, stalinisti, di Pinochet, dei colonnelli greci o argentini. Questa situazione e' legata proprio al tentativo di punire in modo vendicativo i colpevoli. Un procedimento che genera automaticamente una difesa che cerca di negare le colpe. E questa negazione degli orrori del passato, restando piu' o meno latente, semina odi e rancori inestinguibili. Ma attenzione, non si tratta di rinunciare all'azione ma di sostituire l'azione della vendetta con quella della presa di coscienza degli orrori. Di fronte agli orrori non si puo' non reagire. In Jugoslavia, durante la seconda guerra mondiale il regime filonazista croato realizzo' lo sterminio di piu' di un milione di serbi. Questo crimine fu censurato da Tito in nome della riconciliazione nazionale. Non affrontare il bagaglio di dolore di un simile genocidio ha avuto effetti piu' devastanti dell'affrontarlo con lo spirito di vendetta. Dopo qualche decennio il bubbone e' scoppiato. I giornalisti che intervistavano i combattenti serbi della guerra etnica si stupivano di sentir sommare i morti delle persecuzioni degli anni '40 insieme a quelli degli anni '90. Per molti serbi la guerra non era mai finita, era restata solamente congelata per 50 anni.
Un altro esempio africano di cultura diversa lo troviamo per quanto riguarda la cura dei malati. Un esempio che rivela una logica rovesciata sulla vita. Una logica che distrugge i presupposti della FAIDA.
Quanto saresti disposto a pagare per il lusso di poter lavare il sedere a un moribondo?
Leggendo un racconto su Nigrizia, il giornale missionario dei frati Comboniani, ho trovato la storia di una rete di assistenza sanitaria autogestita dai contadini piu' poveri del mondo. Una rete di solidarieta' di villaggio: questi contadini si occupano di lavare e nutrire i malati alleviando le loro sofferenze perlopiu' con qualche erba selvatica, vista la quasi totale mancanza di medicine. La rivista pubblicava la lettera di una ragazza che scriveva al comitato del villaggio. Pressappoco diceva: voi mi conoscete, mi avete accolta insieme ai miei genitori malati e quando loro sono morti vi siete occupati di me e ora io vivo ricambiando la vostra ospitalita' con i miei turni di lavoro nell'orto del villaggio. Ora io vi ringrazio per tutto quello che avete fatto per me ma vorrei chiedervi un grande favore. Il mio sogno piu' grande e' poter curare i malati anch'io. Ma, voi lo sapete, il mio lavoro dell'orto non mi permette di guadagnare denaro e quindi non ho modo di pagare per poter curare i malati. Quindi vi chiedo se fosse possibile fare un'eccezione per me alla regola e permettermi di pagare il diritto a curare i malati facendo un turno supplementare di lavoro nell'orto della comunita'. Signore Iddio! Quando ho letto questo ho fatto un balzo e ho dovuto tornare indietro a leggere. Esiste un posto del mondo dove una ragazza implora di poter pagare con una forma di baratto il diritto a curare un malato perche' non possiede denaro contante? Ma che gente e' questa? I contadini piu' poveri del mondo pagano col denaro il lusso di curare i malati? Ma perche'? Semplicemente perche', grazie agli elementi di cultura matriarcale sopravvissuti nella loro societa', credono sia veramente essenziale occuparsi della paura della morte invece di censurarla. Sono convinti che sia necessario fare qualche cosa per lenire questa paura della fine. E sanno un'altra cosa che io ho scoperto, ahime', molto tardi nella mia vita. Ho sempre cercato di sfuggire i morti e le persone che stavano morendo. Ero terrorizzato dalle emozioni che questi incontri avrebbero potuto scatenare nella mia mente. Poi il destino ha voluto che mi trovassi in una situazione nella quale fuggire sarebbe stato piu' doloroso che affrontare il mio terrore. Ed ho avuto la fortuna di trovarmi vicino a persone di valore che stavano morendo. Le persone di valore non muoiono come le persone che non valgono un cazzo. Se ti e' capitato di parlare con una persona di valore che sta morendo e ne e' conscia lo sai. E' un'esperienza pazzesca. Mi ricordo quando mori' Matilde, una bisnonna stupenda. Io abbracciavo il suo corpo ormai quasi inesistente e piangevo, non riuscendo a controllare in nessuna maniera il dolore. E lei mi accarezzava la testa e mi consolava. Mi diceva: ma dai, non e' cosi' grave, ho vissuto tanto, mi sono divertita tanto, ho amato tanto le mie figlie, le mie nipoti, le mie dolcissime bis nipoti. Ora muoio ma non e' importante. Anzi e' meglio cosi'. Sono un po' stanca. E sono stato vicino anche a un'altra donna meravigliosa che sapeva di avere davanti pochi giorni di vita, lasciava due figlie piccole che la adoravano e piu' di tutto la straziava la privazione che la sua morte avrebbe lasciato dentro di loro. Eppure, pur con quella spada nel cuore, Marina riusci' a mostrarmi la capacita' di continuare a essere presente alla sua vita, contenta di esistere con intatto tutto lo stupore per la vita e persino per l'incomprensibilita' della morte. Devo moltissimo a queste due persone che hanno condiviso con me la sensazione che la vita stia per finire. Mi hanno insegnato che la vita e' tanto dolce e potente che di fronte alla morte scopri di sapere come affrontarla anche se non hai temuto nulla piu' della fine della tua esistenza. Non posso non ringraziare coloro che mi hanno insegnato questo coraggio. Mi danno la forza di sperare che anche io saro' pervaso dal Grande Spirito Coraggioso quando dovro' compiere l'ultimo passo come entita' energetica coerente, unilocata e pensante. L'ho visto fare. So che si puo' fare. Cerchero' di farlo anch'io. E ringrazio per lo stesso motivo tutte le persone che mi hanno permesso di cercare di alleviare il loro dolore. E se tu hai capito questo valore, se tu hai capito che l'essere umano ha bisogno come il pane di entrare in contatto con i malati e i moribondi alla ricerca dei maestri piu' importanti della vita, allora, hai capito anche che devi essere disposto a pagare una tassa salata per godere di questo privilegio. Chi sta morendo ha bisogno di denaro per far fronte a qualche bisogno. Tu sei ben contento di darglielo perche' quel che ricevi in cambio non ha prezzo. In occidente fuggiamo i moribondi e poi sediamo la nostra angoscia di morte guardando in tv migliaia di morti veri o falsi, stupri, botte, rapimenti...
Beppe Grillo
Cinque sorelle per me posson bastare...
Jawaher 4 anni, Dina 8, Samar 12, Ikram 14, Tahrir 17 anni. Cinque sorelle palestinesi della famiglia Balousha. Vivevano a Jabaliya, vicino a Gaza City. Un campo profughi della striscia di Gaza. Una bomba le ha uccise. Un F16 israeliano è volato sulle case di Jabaliya e sulla moschea Imad Aqel, le ha sfiorate nella notte, il suo respiro le ha distrutte. Israele vuole combattere Hamas, ma uccide i bambini.
Si può dire, gridare che chi uccide i bambini, in modo deliberato, ovunque nel mondo, è un assassino? E che va giudicato per crimini contro l'umanità da un tribunale internazionale? Non ci sono giustificazioni. Lo scrittore Abraham Yehoshua, una voce tra le più importanti di Israele, ha detto: "Non avevamo scelta". Ma tra la vita di una bambina e qualunque altra cosa ci deve essere scelta. La bambina è sacra, il resto non conta.
Israele vuole creare un cordone di sicurezza intorno a sè con i bombardamenti, dal Libano a Gaza. Ma non saranno le bombe a portare la sicurezza. Per ogni civile ucciso, ci saranno cento terroristi in più. Per ogni bambino libanese, palestinese, arabo ucciso, mille terroristi in più. Israele si mette sullo stesso piano dei suoi nemici quando massacra i civili e, per questa ragione, potrebbe non avere domani più amici in Occidente. A Israele si chiede di essere non solo più forte di chi la vuole distruggere, ma anche migliore.
Omelia pronunciata da Benedetto XVI durante la celebrazione della Solennità di Maria Santissima Madre di Dio nell’ottava di Natale e in occasione della 42a Giornata Mondiale della Pace sul tema: "Combattere la povertà, costruire la pace".
Nel primo giorno dell’anno, la divina Provvidenza ci raduna per una
celebrazione che ogni volta ci commuove per la ricchezza e la bellezza
delle sue corrispondenze: il Capodanno civile s’incontra con il culmine
dell’ottava di Natale, in cui si celebra la Divina Maternità di Maria, e
questo incontro trova una sintesi felice nella Giornata Mondiale della
Pace. Nella luce del Natale di Cristo, mi è gradito rivolgere a ciascuno i
migliori auguri per l’anno appena iniziato. Li porgo, in particolare, al
Cardinale Renato Raffaele Martino ed ai suoi collaboratori del Pontificio
Consiglio della Giustizia e della Pace, con speciale riconoscenza per il
loro prezioso servizio. Li porgo, al tempo stesso, al Segretario di Stato,
Cardinale Tarcisio Bertone, e all’intera Segreteria di Stato; come pure,
con viva cordialità, ai Signori Ambasciatori presenti oggi in gran numero.
I miei voti fanno eco all’augurio che il Signore stesso ci ha appena
indirizzato, nella liturgia della Parola. Una Parola che, a partire
dall’avvenimento di Betlemme, rievocato nella sua concretezza storica dal
Vangelo di Luca (2,16-21), e riletto in tutta la sua porta ta salvifica
dall’apostolo Paolo (Gal 4,4-7), diventa benedizione per il popolo di Dio
e per l’intera umanità.
Viene così portata a compimento l’antica tradizione ebraica della
benedizione (Nm 6,22-27): i sacerdoti d’Israele benedicevano il popolo
"ponendo su di esso il nome" del Signore. Con una formula ternaria –
presente nella prima lettura – il sacro Nome veniva invocato per tre volte
sui fedeli, quale auspicio di grazia e di pace. Questa remota usanza ci
riporta ad una realtà essenziale: per poter camminare sulla via della
pace, gli uomini e i popoli hanno bisogno di essere illuminati dal "volto"
di Dio ed essere benedetti dal suo "nome". Proprio questo si è avverato in
modo definitivo con l’Incarnazione: la venuta del Figlio di Dio nella
nostra carne e nella storia ha portato una irrevocabile benedizione, una
luce che più non si spegne e che offre ai credenti e agli uomini di buona
volontà la possibilità di costruire la civiltà dell’amore e della pace.
Il Concilio Vaticano II ha detto, a questo riguardo, che "con
l’incarnazione il Figlio di Dio si è unito in certo modo ad ogni uomo"
(Gaudium et spes, 22). Questa unione è venuta a confermare l’originario
disegno di un’umanità creata ad "immagine e somiglianza" di Dio. In
realtà, il Verbo incarnato è l’unica immagine perfetta e consustanziale
del Dio invisibile. Gesù Cristo è l’uomo perfetto. "In Lui - osserva
ancora il Concilio - la natura umana è stata assunta…, perciò stesso essa
è stata anche in noi innalzata a una dignità sublime" (ibid.). Per questo
la storia terrena di Gesù, culminata nel mistero pasquale, è l’inizio di
un mondo nuovo, perché ha realme nte inaugurato una nuova umanità, capace,
sempre e solo con la grazia di Cristo, di operare una "rivoluzione"
pacifica. Una rivoluzione non ideologica ma spirituale, non utopistica ma
reale, e per questo bisognosa di infinita pazienza, di tempi talora
lunghissimi, evitando qualunque scorciatoia e percorrendo la via più
difficile: la via della maturazione della responsabilità nelle coscienze.
Cari amici, questa è la via evangelica alla pace, la via che anche il
Vescovo di Roma è chiamato a riproporre con costanza ogni volta che mette
mano all’annuale Messaggio per la Giornata Mondiale della Pace.
Percorrendo questa strada occorre talvolta ritornare su aspetti e
problematiche già affrontati, ma così importanti da richiedere sempre
nuova attenzione. E’ il caso del tema che ho scelto per il Messaggio di
quest’anno: "Combattere la povertà, costruire la pace". Un tema che si
presta a un duplice ordine di considerazioni, che ora posso solo
brevemente accennare. Da una parte la povertà scelta e proposta da Gesù,
dall’altra la povertà da combattere per rendere il mondo più giusto e
solidale.
Il primo aspetto trova il suo contesto ideale in questi giorni, nel tempo
di Natale. La nascita di Gesù a Betlemme ci rivela che Dio ha scelto la
povertà per se stesso nella sua venuta in mezzo a noi. La scena che i
pastori videro per primi, e che confermò l’annuncio fatto loro
dall’angelo, è quella di una stalla dove Maria e Giuseppe avevano cercato
rifugio, e di una mangiatoia in cui la Vergine aveva deposto il Neonato
avvolto in fasce (cfr Lc 2,7.12.16). Questa povertà Dio l’ha scelta. Ha
voluto nascere così – ma potremmo subito aggiungere: ha voluto vivere, e
anche morire così. Perché? Lo spiega in termini popolari sant’Alfonso
Maria de’ Liguori, in un cantico natalizio, che tutti in Italia conoscono:
"A Te, che sei del mondo il Creatore, mancano panni e fuoco, o mio Signore.
Caro eletto pargoletto, quanto questa povertà più m’innamora, giacché ti
fece amor povero ancora". Ecco la risposta: l’amore per noi ha spinto Gesù
non soltanto a farsi uomo, ma a farsi povero. In questa stessa linea
possiamo citare l’espressione di san Paolo nella seconda Lettera ai
Corinzi: "Conoscete infatti – egli scrive – la grazia del Signore nostro
Gesù Cristo: da ricco che era, si è fatto povero per voi, perché voi
diventaste ricchi per mezzo della sua povertà" (8,9). Testimone esemplare
di questa povertà scelta per amore è san Francesco d’Assisi. Il
francescanesimo, nella storia della Chiesa e della civiltà cristiana,
costituisce una diffusa corrente di povertà evangelica, che tanto bene ha
fatto e continua a fare alla Chiesa e alla famiglia umana. Ritornando alla
stupenda sintesi di san Paolo su Gesù, è significativo – anche per la
nostra riflessione odierna – che sia stata ispirata all’Apostolo proprio
mentre stava esortando i cristiani di Corinto ad essere generosi nella
colletta in favore dei poveri. Egli spiega: "Non si tratta di mettere in
difficoltà voi per sollevare gli altri, ma che vi sia uguaglianza"
(8,13).
E’ questo un punto decisivo, che ci fa passare al secondo aspetto: c’è una
povertà, un’indigenza, che Dio non vuole e che va "combattuta" – come dice
il tema dell’odierna Giornata Mondiale della Pace; una povertà che
impedisce alle persone e alle famiglie di vivere secondo la loro dignità;
una povertà che offende la giustizia e l’uguaglianza e che, come tale,
minaccia la convivenza pacifica. In questa accezione negativa rientrano
anche le forme di povertà non materiale che si riscontrano pure nelle
società ricche e progredite: emarginazione, miseria relazionale, morale e
spirituale (cfr Messaggio per la Giornata Mondiale della Pace 2008, 2).
Nel mio Messaggio ho voluto ancora una volta, sulla scia dei miei
Predecessori, considerare attentamente il complesso fenomeno della
globalizzazione, per valutarne i rapporti con la povertà su larga scala.
Di fronte a piaghe diffuse quali le malattie pandemiche (ivi, 4), la
povertà dei bambini (ivi, 5) e la crisi alimentare (ivi, 7), ho dovuto
purtroppo tornare a denunciare l’inaccettabile corsa ad accrescere gli
armamenti. Da una parte si celebra la Dichiarazione Universale dei Diritti
dell’Uomo, e dall’altra si aumentano le spese militari, violando la stessa
Carta delle Nazioni Unite, che impegna a ridurle al minimo (cfr art. 26).
Inoltre, la globalizzazione elimina certe barriere, ma può costruirne di
nuove (Messaggio cit., 8), perciò bisogna che la comunità internazionale e
i singoli Stati siano sempre vigilanti; bisogna che non abbassino mai la
guardia rispetto ai pericoli di conflitto, anzi, si impegnino a mantenere
alto il livello della solidarietà. L’attuale crisi economica globale va
vista in tal senso anche come un banco di prova: siamo pronti a leggerla,
nella sua complessità, quale sfida per il futuro e non solo come
un’emergenza a cui dare risposte di corto respiro? Siamo disposti a fare
insieme una revisione profonda del modello di sviluppo dominante, per
correggerlo in modo concertato e lungimirante? Lo esigono, in realtà, più
ancora che le difficoltà finanziarie immediate, lo stato di salute
ecologica del pianeta e, soprattutto, la crisi culturale e morale, i cui
sintomi da tempo sono evidenti in ogni par te del mondo.
Occorre allora cercare di stabilire un "circolo virtuoso" tra la povertà
"da scegliere" e la povertà "da combattere". Si apre qui una via feconda
di frutti per il presente e per il futuro dell’umanità, che si potrebbe
riassumere così: per combattere la povertà iniqua, che opprime tanti
uomini e donne e minaccia la pace di tutti, occorre riscoprire la sobrietà
e la solidarietà, quali valori evangelici e al tempo stesso universali. Più
in concreto, non si può combattere efficacemente la miseria, se non si fa
quello che scrive san Paolo ai Corinzi, cioè se non si cerca di "fare
uguaglianza", riducendo il dislivello tra chi spreca il superfluo e chi
manca persino del necessario. Ciò comporta scelte di giustizia e di
sobrietà, scelte peraltro obbligate dall’esigenza di amministrare
saggiamente le limitate risorse della terra. Quando afferma che Gesù
Cristo ci ha arricchiti "con la sua povertà", san Paolo offre
un’indicazione importante non solo sotto il profilo teologico, ma anche
sul piano sociologico. Non nel senso che la povertà sia un valore in sé,
ma perché essa è condizione per realizzare la solidarietà. Quando
Francesco d’Assisi si spoglia dei suoi beni, fa una scelta di
testimonianza ispiratagli direttamente da Dio, ma nello stesso tempo
mostra a tutti la via della fiducia nella Provvidenza. Così, nella Chiesa,
il voto di povertà è l’impegno di alcuni, ma ricorda a tutti l’esigenza del
distacco dai beni materiali e il primato delle ricchezze dello spirito.
Ecco dunque il messaggio da raccogliere oggi: la povertà della nascita di
Cristo a Betlemme, oltre che oggetto di adorazione per i cristiani, è
anche scuola di vita per ogni uomo. Essa ci insegna che per combattere la
miseria, tanto materiale quanto spirituale, la via da percorrere è quella
della solidarietà, che ha spinto Gesù a condividere la nostra condizione
umana.
Cari fratelli e sorelle, penso che la Vergine Maria si sia posta più di
una volta questa domanda: perché Gesù ha voluto nascere da una ragazza
semplice e umile come me? E poi, perché ha voluto venire al mondo in una
stalla ed avere come prima visita quella dei pastori di Betlemme? La
risposta Maria l’ebbe pienamente alla fine, dopo aver deposto nel sepolcro
il corpo di Gesù, morto e avvolto in fasce (cfr Lc 23,53). Allora comprese
appieno il mistero della povertà di Dio. Comprese che Dio si era fatto
povero per noi, per arricchirci della sua povertà piena d’amore, per
esortarci a frenare l’ingordigia insaziabile che suscita lotte e
divisioni, per invitarci a moderare la smania di possedere e ad essere
così disponibili alla condivisione e all’accoglienza reciproca. A Maria,
Madre del Figlio di Dio fattosi nostro fratello, rivolgiamo fiduciosi la
nostra preghiera, perché ci aiuti a seguirne le orme, a combattere e
vincere la povertà, a costruire la vera pace, che è opus iustitiae. A Lei
affidiamo il profondo desiderio di vivere in pace che sale dal cuore della
grande maggioranza delle popolazioni israeliana e palestinese, ancora una
volta messe a repentaglio dalla massiccia violenza scoppiata nella
striscia di Gaza in risposta ad altra violenza. Anche la violenza, anche
l’odio e la sfiducia sono forme di povertà – forse le più tremende – "da
combattere". Che esse non prendano il sopravvento! In tal senso i Pastori
di quelle Chiese, in questi tristi giorni, hanno fatto udire la loro voce.
Insieme ad essi e ai loro carissimi fedeli, soprattutto quelli della
piccola ma fervente parrocchia di Gaza, deponiamo ai piedi di Maria le
nostre preoccupazioni per il presente e i timori per il futuro, ma altresì
la fondata speranza che, con il saggio e lungimirante contributo di tutti,
non sarà impossibile ascoltarsi, venirsi incontro e dare risposte concrete
all’aspirazione diffusa a vivere in pace, in sicurezza, in dignità. Diciamo
a Maria: accompagnaci, celeste Madre del Redentore, lungo tutto l’anno che
oggi inizia, e ottieni da Dio il dono della pace per la Terrasanta e per
l’intera umanità. Santa Madre di Dio, prega per noi. Amen.
MESSAGGIO DI SUA SANTITÀ
BENEDETTO XVI
PER LA CELEBRAZIONE DELLA
GIORNATA MONDIALE DELLA PACE
1° GENNAIO 2009
COMBATTERE LA POVERTÀ, COSTRUIRE LA PACE
1. Anche all'inizio di questo nuovo anno desidero far giungere a tutti il mio augurio di pace ed invitare, con questo mio Messaggio, a riflettere sul tema: Combattere la povertà, costruire la pace.Giovanni Paolo II, nel Messaggio per la Giornata Mondiale della Pace del 1993, aveva sottolineato le ripercussioni negative che la situazione di povertà di intere popolazioni finisce per avere sulla pace. Di fatto, la povertà risulta sovente tra i fattori che favoriscono o aggravano i conflitti, anche armati. A loro volta, questi ultimi alimentano tragiche situazioni di povertà. « S'afferma... e diventa sempre più grave nel mondo – scriveva Giovanni Paolo II – un'altra seria minaccia per la pace: molte persone, anzi, intere popolazioni vivono oggi in condizioni di estrema povertà. La disparità tra ricchi e poveri s'è fatta più evidente, anche nelle nazioni economicamente più sviluppate. Si tratta di un problema che s'impone alla coscienza dell'umanità, giacché le condizioni in cui versa un gran numero di persone sono tali da offenderne la nativa dignità e da compromettere, conseguentemente, l'autentico ed armonico progresso della comunità mondiale » [1]. Già il mio venerato predecessore
2. In questo contesto, combattere la povertà implica un'attenta considerazione del complesso fenomeno della globalizzazione. Tale considerazione è importante già dal punto di vista metodologico, perché suggerisce di utilizzare il frutto delle ricerche condotte dagli economisti e sociologi su tanti aspetti della povertà. Il richiamo alla globalizzazione dovrebbe, però, rivestire anche un significato spirituale e morale, sollecitando a guardare ai poveri nella consapevole prospettiva di essere tutti partecipi di un unico progetto divino, quello della vocazione a costituire un'unica famiglia in cui tutti – individui, popoli e nazioni – regolino i loro comportamenti improntandoli ai principi di fraternità e di responsabilità.
In tale prospettiva occorre avere, della povertà, una visione ampia ed articolata. Se la povertà fosse solo materiale, le scienze sociali che ci aiutano a misurare i fenomeni sulla base di dati di tipo soprattutto quantitativo, sarebbero sufficienti ad illuminarne le principali caratteristiche. Sappiamo, però, che esistono povertà immateriali, che non sono diretta e automatica conseguenza di carenze materiali. Ad esempio, nelle società ricche e progredite esistono fenomeni di emarginazione, povertà relazionale, morale e spirituale: si tratta di persone interiormente disorientate, che vivono diverse forme di disagio nonostante il benessere economico. Penso, da una parte, a quello che viene chiamato il « sottosviluppo morale » [2] e, dall'altra, alle conseguenze negative del « supersviluppo » [3]. Non dimentico poi che, nelle società cosiddette « povere », la crescita economica è spesso frenata da impedimenti culturali, che non consentono un adeguato utilizzo delle risorse. Resta comunque vero che ogni forma di povertà imposta ha alla propria radice il mancato rispetto della trascendente dignità della persona umana. Quando l'uomo non viene considerato nell'integralità della sua vocazione e non si rispettano le esigenze di una vera « ecologia umana » [4], si scatenano anche le dinamiche perverse della povertà, com'è evidente in alcuni ambiti sui quali soffermerò brevemente la mia attenzione.
Povertà e implicazioni morali
3. La povertà viene spesso correlata, come a propria causa, allo sviluppo demografico. In conseguenza di ciò, sono in atto campagne di riduzione delle nascite, condotte a livello internazionale, anche con metodi non rispettosi né della dignità della donna né del diritto dei coniugi a scegliere responsabilmente il numero dei figli [5] e spesso, cosa anche più grave, non rispettosi neppure del diritto alla vita. Lo sterminio di milioni di bambini non nati, in nome della lotta alla povertà, costituisce in realtà l'eliminazione dei più poveri tra gli esseri umani. A fronte di ciò resta il fatto che, nel 1981, circa il 40% della popolazione mondiale era al di sotto della linea di povertà assoluta, mentre oggi tale percentuale è sostanzialmente dimezzata, e sono uscite dalla povertà popolazioni caratterizzate, peraltro, da un notevole incremento demografico. Il dato ora rilevato pone in evidenza che le risorse per risolvere il problema della povertà ci sarebbero, anche in presenza di una crescita della popolazione. Né va dimenticato che, dalla fine della seconda guerra mondiale ad oggi, la popolazione sulla terra è cresciuta di quattro miliardi e, in larga misura, tale fenomeno riguarda Paesi che di recente si sono affacciati sulla scena internazionale come nuove potenze economiche e hanno conosciuto un rapido sviluppo proprio grazie all'elevato numero dei loro abitanti. Inoltre, tra le Nazioni maggiormente sviluppate quelle con gli indici di natalità maggiori godono di migliori potenzialità di sviluppo. In altri termini, la popolazione sta confermandosi come una ricchezza e non come un fattore di povertà.
4. Un altro ambito di preoccupazione sono le malattie pandemiche quali, ad esempio, la malaria, la tubercolosi e l'AIDS, che, nella misura in cui colpiscono i settori produttivi della popolazione, influiscono grandemente sul peggioramento delle condizioni generali del Paese. I tentativi di frenare le conseguenze di queste malattie sulla popolazione non sempre raggiungono risultati significativi. Capita, inoltre, che i Paesi vittime di alcune di tali pandemie, per farvi fronte, debbano subire i ricatti di chi condiziona gli aiuti economici all'attuazione di politiche contrarie alla vita. È soprattutto difficile combattere l'AIDS, drammatica causa di povertà, se non si affrontano le problematiche morali con cui la diffusione del virus è collegata. Occorre innanzitutto farsi carico di campagne che educhino specialmente i giovani a una sessualità pienamente rispondente alla dignità della persona; iniziative poste in atto in tal senso hanno già dato frutti significativi, facendo diminuire la diffusione dell'AIDS. Occorre poi mettere a disposizione anche dei popoli poveri le medicine e le cure necessarie; ciò suppone una decisa promozione della ricerca medica e delle innovazioni terapeutiche nonché, quando sia necessario, un'applicazione flessibile delle regole internazionali di protezione della proprietà intellettuale, così da garantire a tutti le cure sanitarie di base.
5. Un terzo ambito, oggetto di attenzione nei programmi di lotta alla povertà e che ne mostra l'intrinseca dimensione morale, è la povertà dei bambini. Quando la povertà colpisce una famiglia, i bambini ne risultano le vittime più vulnerabili: quasi la metà di coloro che vivono in povertà assoluta oggi è rappresentata da bambini. Considerare la povertà ponendosi dalla parte dei bambini induce a ritenere prioritari quegli obiettivi che li interessano più direttamente come, ad esempio, la cura delle madri, l'impegno educativo, l'accesso ai vaccini, alle cure mediche e all'acqua potabile, la salvaguardia dell'ambiente e, soprattutto, l'impegno a difesa della famiglia e della stabilità delle relazioni al suo interno. Quando la famiglia si indebolisce i danni ricadono inevitabilmente sui bambini. Ove non è tutelata la dignità della donna e della mamma, a risentirne sono ancora principalmente i figli.
6. Un quarto ambito che, dal punto di vista morale, merita particolare attenzione è la relazione esistente tra disarmo e sviluppo. Suscita preoccupazione l'attuale livello globale di spesa militare. Come ho già avuto modo di sottolineare, capita che « le ingenti risorse materiali e umane impiegate per le spese militari e per gli armamenti vengono di fatto distolte dai progetti di sviluppo dei popoli, specialmente di quelli più poveri e bisognosi di aiuto. E questo va contro quanto afferma la stessa Carta delle Nazioni Unite, che impegna la comunità internazionale, e gli Stati in particolare, a “promuovere lo stabilimento ed il mantenimento della pace e della sicurezza internazionale col minimo dispendio delle risorse umane ed economiche mondiali per gli armamenti” (art. 26) » [6].
Questo stato di cose non facilita, anzi ostacola seriamente il raggiungimento dei grandi obiettivi di sviluppo della comunità internazionale. Inoltre, un eccessivo accrescimento della spesa militare rischia di accelerare una corsa agli armamenti che provoca sacche di sottosviluppo e di disperazione, trasformandosi così paradossalmente in fattore di instabilità, di tensione e di conflitti. Come ha sapientemente affermato il mio venerato Predecessore Paolo VI, « lo sviluppo è il nuovo nome della pace » [7]. Gli Stati sono pertanto chiamati ad una seria riflessione sulle più profonde ragioni dei conflitti, spesso accesi dall'ingiustizia, e a provvedervi con una coraggiosa autocritica. Se si giungerà ad un miglioramento dei rapporti, ciò dovrebbe consentire una riduzione delle spese per gli armamenti. Le risorse risparmiate potranno essere destinate a progetti di sviluppo delle persone e dei popoli più poveri e bisognosi: l'impegno profuso in tal senso è un impegno per la pace all'interno della famiglia umana.
7. Un quinto ambito relativo alla lotta alla povertà materiale riguarda l'attuale crisi alimentare, che mette a repentaglio il soddisfacimento dei bisogni di base. Tale crisi è caratterizzata non tanto da insufficienza di cibo, quanto da difficoltà di accesso ad esso e da fenomeni speculativi e quindi da carenza di un assetto di istituzioni politiche ed economiche in grado di fronteggiare le necessità e le emergenze. La malnutrizione può anche provocare gravi danni psicofisici alle popolazioni, privando molte persone delle energie necessarie per uscire, senza speciali aiuti, dalla loro situazione di povertà. E questo contribuisce ad allargare la forbice delle disuguaglianze, provocando reazioni che rischiano di diventare violente. I dati sull'andamento della povertà relativa negli ultimi decenni indicano tutti un aumento del divario tra ricchi e poveri. Cause principali di tale fenomeno sono senza dubbio, da una parte, il cambiamento tecnologico, i cui benefici si concentrano nella fascia più alta della distribuzione del reddito e, dall'altra, la dinamica dei prezzi dei prodotti industriali, che crescono molto più velocemente dei prezzi dei prodotti agricoli e delle materie prime in possesso dei Paesi più poveri. Capita così che la maggior parte della popolazione dei Paesi più poveri soffra di una doppia marginalizzazione, in termini sia di redditi più bassi sia di prezzi più alti.
Lotta alla povertà e solidarietà globale
8. Una delle strade maestre per costruire la pace è una globalizzazione finalizzata agli interessi della grande famiglia umana [8]. Per governare la globalizzazione occorre però una forte solidarietà globale [9] tra Paesi ricchi e Paesi poveri, nonché all'interno dei singoli Paesi, anche se ricchi. È necessario un « codice etico comune » [10], le cui norme non abbiano solo un carattere convenzionale, ma siano radicate nella legge naturale inscritta dal Creatore nella coscienza di ogni essere umano (cfr Rm 2,14-15). Non avverte forse ciascuno di noi nell'intimo della coscienza l'appello a recare il proprio contributo al bene comune e alla pace sociale? La globalizzazione elimina certe barriere, ma ciò non significa che non ne possa costruire di nuove; avvicina i popoli, ma la vicinanza spaziale e temporale non crea di per sé le condizioni per una vera comunione e un'autentica pace. La marginalizzazione dei poveri del pianeta può trovare validi strumenti di riscatto nella globalizzazione solo se ogni uomo si sentirà personalmente ferito dalle ingiustizie esistenti nel mondo e dalle violazioni dei diritti umani ad esse connesse. La Chiesa, che è « segno e strumento dell'intima unione con Dio e dell'unità di tutto il genere umano », [11] continuerà ad offrire il suo contributo affinché siano superate le ingiustizie e le incomprensioni e si giunga a costruire un mondo più pacifico e solidale.
9. Nel campo del commercio internazionale e delle transazioni finanziarie, sono oggi in atto processi che permettono di integrare positivamente le economie, contribuendo al miglioramento delle condizioni generali; ma ci sono anche processi di senso opposto, che dividono e marginalizzano i popoli, creando pericolose premesse per guerre e conflitti. Nei decenni successivi alla seconda guerra mondiale, il commercio internazionale di beni e di servizi è cresciuto in modo straordinariamente rapido, con un dinamismo senza precedenti nella storia. Gran parte del commercio mondiale ha interessato i Paesi di antica industrializzazione, con la significativa aggiunta di molti Paesi emergenti, diventati rilevanti. Ci sono però altri Paesi a basso reddito, che risultano ancora gravemente marginalizzati rispetto ai flussi commerciali. La loro crescita ha risentito negativamente del rapido declino, registrato negli ultimi decenni, dei prezzi dei prodotti primari, che costituiscono la quasi totalità delle loro esportazioni. In questi Paesi, per la gran parte africani, la dipendenza dalle esportazioni di prodotti primari continua a costituire un potente fattore di rischio. Vorrei qui rinnovare un appello perché tutti i Paesi abbiano le stesse possibilità di accesso al mercato mondiale, evitando esclusioni e marginalizzazioni.
10. Una riflessione simile può essere fatta per la finanza, che concerne uno degli aspetti primari del fenomeno della globalizzazione, grazie allo sviluppo dell'elettronica e alle politiche di liberalizzazione dei flussi di denaro tra i diversi Paesi. La funzione oggettivamente più importante della finanza, quella cioè di sostenere nel lungo termine la possibilità di investimenti e quindi di sviluppo, si dimostra oggi quanto mai fragile: essa subisce i contraccolpi negativi di un sistema di scambi finanziari – a livello nazionale e globale - basati su una logica di brevissimo termine, che persegue l'incremento del valore delle attività finanziarie e si concentra nella gestione tecnica delle diverse forme di rischio. Anche la recente crisi dimostra come l'attività finanziaria sia a volte guidata da logiche puramente autoreferenziali e prive della considerazione, a lungo termine, del bene comune. L'appiattimento degli obiettivi degli operatori finanziari globali sul brevissimo termine riduce la capacità della finanza di svolgere la sua funzione di ponte tra il presente e il futuro, a sostegno della creazione di nuove opportunità di produzione e di lavoro nel lungo periodo. Una finanza appiattita sul breve e brevissimo termine diviene pericolosa per tutti, anche per chi riesce a beneficiarne durante le fasi di euforia finanziaria [12].
11. Da tutto ciò emerge che la lotta alla povertà richiede una cooperazione sia sul piano economico che su quello giuridico che permetta alla comunità internazionale e in particolare ai Paesi poveri di individuare ed attuare soluzioni coordinate per affrontare i suddetti problemi realizzando un efficace quadro giuridico per l'economia. Richiede inoltre incentivi alla creazione di istituzioni efficienti e partecipate, come pure sostegni per lottare contro la criminalità e per promuovere una cultura della legalità. D'altra parte, non si può negare che le politiche marcatamente assistenzialiste siano all'origine di molti fallimenti nell'aiuto ai Paesi poveri. Investire nella formazione delle persone e sviluppare in modo integrato una specifica cultura dell'iniziativa sembra attualmente il vero progetto a medio e lungo termine. Se le attività economiche hanno bisogno, per svilupparsi, di un contesto favorevole, ciò non significa che l'attenzione debba essere distolta dai problemi del reddito. Sebbene si sia opportunamente sottolineato che l'aumento del reddito pro capite non può costituire in assoluto il fine dell'azione politico-economica, non si deve però dimenticare che esso rappresenta uno strumento importante per raggiungere l'obiettivo della lotta alla fame e alla povertà assoluta. Da questo punto di vista va sgomberato il campo dall'illusione che una politica di pura ridistribuzione della ricchezza esistente possa risolvere il problema in maniera definitiva. In un'economia moderna, infatti, il valore della ricchezza dipende in misura determinante dalla capacità di creare reddito presente e futuro. La creazione di valore risulta perciò un vincolo ineludibile, di cui si deve tener conto se si vuole lottare contro la povertà materiale in modo efficace e duraturo.
12. Mettere i poveri al primo posto comporta, infine, che si riservi uno spazio adeguato a una corretta logica economica da parte degli attori del mercato internazionale, ad una corretta logica politica da parte degli attori istituzionali e ad una corretta logica partecipativa capace di valorizzare la società civile locale e internazionale. Gli stessi organismi internazionali riconoscono oggi la preziosità e il vantaggio delle iniziative economiche della società civile o delle amministrazioni locali per la promozione del riscatto e dell'inclusione nella società di quelle fasce della popolazione che sono spesso al di sotto della soglia di povertà estrema e sono al tempo stesso difficilmente raggiungibili dagli aiuti ufficiali. La storia dello sviluppo economico del XX secolo insegna che buone politiche di sviluppo sono affidate alla responsabilità degli uomini e alla creazione di positive sinergie tra mercati, società civile e Stati. In particolare, la società civile assume un ruolo cruciale in ogni processo di sviluppo, poiché lo sviluppo è essenzialmente un fenomeno culturale e la cultura nasce e si sviluppa nei luoghi del civile [13].
13. Come ebbe ad affermare il mio venerato Predecessore Giovanni Paolo II, la globalizzazione « si presenta con una spiccata caratteristica di ambivalenza » [14] e quindi va governata con oculata saggezza. Rientra in questa forma di saggezza il tenere primariamente in conto le esigenze dei poveri della terra, superando lo scandalo della sproporzione esistente tra i problemi della povertà e le misure che gli uomini predispongono per affrontarli. La sproporzione è di ordine sia culturale e politico che spirituale e morale. Ci si arresta infatti spesso alle cause superficiali e strumentali della povertà, senza raggiungere quelle che albergano nel cuore umano, come l'avidità e la ristrettezza di orizzonti. I problemi dello sviluppo, degli aiuti e della cooperazione internazionale vengono affrontati talora senza un vero coinvolgimento delle persone, ma come questioni tecniche, che si esauriscono nella predisposizione di strutture, nella messa a punto di accordi tariffari, nello stanziamento di anonimi finanziamenti. La lotta alla povertà ha invece bisogno di uomini e donne che vivano in profondità la fraternità e siano capaci di accompagnare persone, famiglie e comunità in percorsi di autentico sviluppo umano.
Conclusione
14. Nell'Enciclica Centesimus annus, Giovanni Paolo II ammoniva circa la necessità di « abbandonare la mentalità che considera i poveri – persone e popoli – come un fardello e come fastidiosi importuni, che pretendono di consumare quanto altri hanno prodotto ». « I poveri – egli scriveva - chiedono il diritto di partecipare al godimento dei beni materiali e di mettere a frutto la loro capacità di lavoro, creando così un mondo più giusto e per tutti più prospero » [15]. Nell'attuale mondo globale è sempre più evidente che si costruisce la pace solo se si assicura a tutti la possibilità di una crescita ragionevole: le distorsioni di sistemi ingiusti, infatti, prima o poi, presentano il conto a tutti. Solo la stoltezza può quindi indurre a costruire una casa dorata, ma con attorno il deserto o il degrado. La globalizzazione da sola è incapace di costruire la pace e, in molti casi, anzi, crea divisioni e conflitti. Essa rivela piuttosto un bisogno: quello di essere orientata verso un obiettivo di profonda solidarietà che miri al bene di ognuno e di tutti. In questo senso, la globalizzazione va vista come un'occasione propizia per realizzare qualcosa di importante nella lotta alla povertà e per mettere a disposizione della giustizia e della pace risorse finora impensabili.
15. Da sempre la dottrina sociale della Chiesa si è interessata dei poveri. Ai tempi dell'Enciclica Rerum novarum essi erano costituiti soprattutto dagli operai della nuova società industriale; nel magistero sociale di Pio XI, di Pio XII, di Giovanni XXIII, di Paolo VI e di Giovanni Paolo II sono state messe in luce nuove povertà man mano che l'orizzonte della questione sociale si allargava, fino ad assumere dimensioni mondiali [16]. Questo allargamento della questione sociale alla globalità va considerato nel senso non solo di un'estensione quantitativa, ma anche di un approfondimento qualitativo sull'uomo e sui bisogni della famiglia umana. Per questo la Chiesa, mentre segue con attenzione gli attuali fenomeni della globalizzazione e la loro incidenza sulle povertà umane, indica i nuovi aspetti della questione sociale, non solo in estensione, ma anche in profondità, in quanto concernenti l'identità dell'uomo e il suo rapporto con Dio. Sono principi di dottrina sociale che tendono a chiarire i nessi tra povertà e globalizzazione e ad orientare l'azione verso la costruzione della pace. Tra questi principi è il caso di ricordare qui, in modo particolare, l'« amore preferenziale per i poveri » [17], alla luce del primato della carità, testimoniato da tutta la tradizione cristiana, a cominciare da quella della Chiesa delle origini (cfr At 4,32-36; 1 Cor 16,1; 2 Cor 8-9; Gal 2,10).
« Ciascuno faccia la parte che gli spetta e non indugi », scriveva nel 1891 Leone XIII, aggiungendo: « Quanto alla Chiesa, essa non lascerà mancare mai e in nessun modo l'opera sua » [18]. Questa consapevolezza accompagna anche oggi l'azione della Chiesa verso i poveri, nei quali vede Cristo [19], sentendo risuonare costantemente nel suo cuore il mandato del Principe della pace agli Apostoli: « Vos date illis manducare – date loro voi stessi da mangiare » (Lc 9,13). Fedele a quest'invito del suo Signore, la Comunità cristiana non mancherà pertanto di assicurare all'intera famiglia umana il proprio sostegno negli slanci di solidarietà creativa non solo per elargire il superfluo, ma soprattutto per cambiare « gli stili di vita, i modelli di produzione e di consumo, le strutture consolidate di potere che oggi reggono le società » [20]. Ad ogni discepolo di Cristo, come anche ad ogni persona di buona volontà, rivolgo pertanto all'inizio di un nuovo anno il caldo invito ad allargare il cuore verso le necessità dei poveri e a fare quanto è concretamente possibile per venire in loro soccorso. Resta infatti incontestabilmente vero l'assioma secondo cui « combattere la povertà è costruire la pace ».
Dal Vaticano, 8 Dicembre 2008
BENEDICTUS PP. XVI
[1] Messaggio per la Giornata Mondiale della Pace, 1.
[2] Paolo VI, Lett. enc. Populorum progressio, 19.
[3] Giovanni Paolo II, Lett. enc. Sollicitudo rei socialis, 28.
[4] Giovanni Paolo II, Lett. enc. Centesimus annus, 38.
[5] Cfr Paolo VI, Lett. enc. Populorum progressio, 37; Giovanni Paolo II, Lett. enc. Sollicitudo rei socialis, 25.
[6] Benedetto XVI, Lettera al Cardinale Renato Raffaele Martino in occasione del Seminario internazionale organizzato dal Pontificio Consiglio della Giustizia e della Pace sul tema « Disarmo, sviluppo e pace. Prospettive per un disarmo integrale », 10 aprile 2008: L'Osservatore Romano, 13.4.2008, p. 8.
[7] Lett. enc. Populorum progressio, 87.
[8] Cfr Giovanni Paolo II, Lett. enc. Centesimus annus, 58.
[9] Cfr Giovanni Paolo II, Discorso all'Udienza alle Acli, 27 aprile 2002, 4: Insegnamenti di Giovanni Paolo II, XXV, 1 [2002], 637.
[10] Giovanni Paolo II, Discorso all'Assemblea Plenaria della Pontificia Accademia delle Scienze sociali, 27 aprile 2001, 4: Insegnamenti di Giovanni Paolo II, XXIV, 1 [2001], 802.
[11] Conc. Ecum. Vat. II, Cost. dogm. Lumen gentium, 1.
[12] Cfr Pontificio Consiglio della Giustizia e della Pace, Compendio della dottrina sociale della Chiesa, 368.
[13] Cfr ibid., 356.
[14] Discorso nell'Udienza a Dirigenti di sindacati di lavoratori e di grandi società, 2 maggio 2000, 3: Insegnamenti di Giovanni Paolo II, XXIII, 1 [2000], 726.
[15] N. 28.
[16] Cfr Paolo VI, Lett. enc. Populorum progressio, 3.
[17] Giovanni Paolo II, Lett. enc. Sollicitudo rei socialis, 42; cfr Idem, Lett. enc. Centesimus annus, 57.
[18] Lett. enc. Rerum novarum, 45.
[19] Cfr Giovanni Paolo II, Lett. enc. Centesimus annus, 58.
[20] Ibid.