mercoledì 4 gennaio 2006
S-21 la macchina di morte dei khmer rossi
Dal libro di Rithy Panh e Christine Chaumenau
Man, membro delle forze speciali racconta qual e' stata la sua formazione.
"Prima ero un ragazzo molto buono. Quando sono partito per fare il soldato il mio capo m ha detto: "Compagno, se sei buono gli altri ti disprezzano. Quando imbracci il fucile, quando lo punti contro qualcuno , non mettere la sicura. Altrimenti la gente ti prende sottogamba, devi sparare. Se non vuoi sparare a qualcuno, spara in aria, a un albero o nel cielo. Cosi' fa un uomo deciso".
Allora ho imparato a essere deciso e a poco a poco sono diventato cattivo. Non avevo paura di nessuno. Se parlavo e qualcuno non mi ascoltava, avevo il diritto di picchiare. Se qualcuno nella mia unita' non mi rispettava, prendevo il fucile e gli sparavo alle gambe. E il mio capo non diceva niente. Non ero colpevole perche' il capo mi aveva detto che dovevo essere deciso, era lui che mi aveva insegnato a essere cattivo. Mi aveva detto che quando si toglieva la sicura non bisognava rimetterla senza avere sparato, altrimenti avrebbe portato sfortuna.
E sono diventato cattivo, un po' per volta. Ogni giorno, un po' di piu'. Perche' non avevo paura di nessuno. Non sentivo nostalgia di casa ne' dei miei genitori, mai. Restava solo una cosa: avevo voglia di essere cattivo perche' non avevo paura di nessuno. Di chi avrei dovuto aver paura? Nell'esercito eravamo lontani dai genitori. C'erano solo i compagni, e il gruppo continuava a educarci. E poi, per forza, non sapevamo piu' che cos'era la colpa.
Sapevamo solo essere cattivi.
Cominciavo a osare sparare, arrestare, legare.
Se uccidevo qualcuno qual era il problema? Non c'era colpa e io avevo sempre ragione, ero nel giusto. Poco importava che gli altri morissero. Io dovevo vivere. E' il mio capo che mi ha educato cosi'. Non importava la morte degli altri, purche' io restassi vivo. E poi mi diceva che chi spara per primo vince, chi uccide per primo continua a vivere. Se si spara per primi, si vince. Ecco: e' questo che conta. Applicavamo questa regola. Sparavamo per primi, l'altro moriva; se l'altro avesse sparato per primo, saremmo morti noi. Se vincevamo, continuavamo a vivere; se perdevamo, morivamo. C'erano solo due possibilita'. Sono affondato sempre piu' nella cattiveria.
Per esempio, quando prendevano un nemico e lo portavano da me per essere interrogato, io lo picchiavo prima ancora di fargli delle domande. Il capo mi aveva insegnato questo: per prima cosa bisogna picchiare. Diceva cosi': quando si prende qualcuno lo si lega, quando lo si lega, bisogna picchiare. Io non legavo, ma picchiavo. Quando picchiavo, se il prigioniero mi supplicava di lasciarlo in vita non dovevo avere pieta'. No perche' la legge era cosi', bisognava picchiare. Anche se mi implorava con un sampeah (saluto tradizionale khmer), lo colpivo sulle mani. Era molto crudele. Ma se non si faceva cosi' non si poteva essere yothea (soldati). Sprofondavo sempre piu' nella cattiveria. Ho cominciato con lo sparare, poi sono arrivato a torturare senza compassione. La mia mano non conosceva esitazioni. Ero senza pieta'. Se mi dicevano che dopo l'interrogatorio, dopo aver picchiato, bisognava uccidere, io uccidevo con il fucile. Se dopo il primo colpo non era morto, sparavo ancora finche' non moriva. Non doveva restare vivo.Quando arrivavi a fare questo una volta, due volte, diventavi ancora un po' piu' cattivo. La crudelta' era cosi', Angkar viney, "la disciplina dell'Angkar". L'Angkar diceva: "Compagno, ti viene assegnata l'esecuzione del prigioniero". Se non lo giustiziavi, ti opponevi all'Angkar, passavi guai.
Io osavo sempre di piu'. Non avevo piu' paura di nessuno. La crudelta' si annidava sempre di piu' in me. Non provavo pieta' nemmeno per una donna, non la lasciavo vivere. Se bisognava sparare, si sparava. Perche' veniva chiamata khmaling, nemico, CIA. Ero crudele, e i miei compagni ammiravano la mia cattiveria. Non dovevo provare rispetto, amore, ne' compassione.
Si uccideva, non si era in torto. Perche' chi veniva ucciso non aveva nessun diritto. Quando si uccideva qualcuno, si faceva un passo avanti nella cattiveria. Si uccideva chi si voleva, perche' l'altro non aveva dritti.
Io non riconoscevo agli altri alcun diritto.
Era il fucile che imbracciavo che mi rendeva crudele. Tanto che non riconoscevo piu' nessuno, talmente ero crudele.
La cosa piu' importante era avere tra le mani un fucile. Non avevo paura di nessuno. Anche quando sparavo e per questo qualcuno moriva, io ero contento.
Il cuore era crudele. Il mio cuore era deciso, piu' ancora di quanto mi era stato insegnato. Allora non sapevo come fosse questo cuore. Non ho mai pensato che la persona che picchiavo aveva un fratello e una sorella. Picchiavo la gente, cosi', e quando sono tornato a casa, altri avevano colpito i miei genitori, come io avevo colpito gli altri".
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