Perchè l'uomo viva
Moratoria contro l’aborto. Nuovi limiti per la legge 194.
Temi caldi, che hanno acceso una battaglia mediatica di giudizi e opinioni. Solo una questione etica?
No, secondo un importante neonatologo italiano.
Che spiega qual è il modo più ragionevole per affrontare il problema: lasciare parlare i fatti
Moratoria contro l’aborto. Nuovi limiti per la legge 194.
Temi caldi, che hanno acceso una battaglia mediatica di giudizi e opinioni. Solo una questione etica?
No, secondo un importante neonatologo italiano.
Che spiega qual è il modo più ragionevole per affrontare il problema: lasciare parlare i fatti
Un tema scottante, quello della “vita”. Prima l’appello di Giuliano Ferrara per una moratoria contro l’aborto, e ora la legge regionale della Lombardia che pone il limite delle 22 settimane all’aborto terapeutico. Il dibattito che ne è nato ha scatenato un putiferio di opinioni e giudizi che nell’ultimo mese hanno riempito i giornali. Al richiamo del Papa, per il quale «le nuove frontiere della bioetica non impongono una scelta fra la scienza e la morale, ma esigono piuttosto un uso morale della scienza» e al suo auspicio che sia stimolato il dialogo «sul carattere sacro della vita»,
molti intellettuali, politici e scienziati hanno risposto additando a una Chiesa ingerente in campo laico, bigotta e contro la modernità. Ne abbiamo parlato con Carlo Valerio Bellieni, neonatologo del Policlinico Universitario “Le Scotte” di Siena.
Mentre in Italia imperversa la bagarre, nel suo reparto si fa ricerca per tenere in vita i bambini nati prematuramente... La questione dei nati prematuri è un problema affascinante. Fa vedere da un lato come il progresso della Medicina vada avanti e come, dall’altro, questo progresso non faccia comodo. Negli anni 60 il 90% dei bambini nati prematuri sotto il chilo morivano. Oggi ne muore solo il 10%. La percentuale del 90% di quel periodo corrisponde, oggi, a quella dei prematuri nati alla 22esima settimana che non ce la fanno. Adesso si dice: siccome ne muoiono 9 su 10, è un accanimento terapeutico. Se avessero detto così negli anni 60 dei bambini sotto il chilo, la Medicina non avrebbe fatto i passi da gigante che ha fatto.
Cosa è cambiato da allora? Ci sono stati tre passi avanti importanti. Primo: la possibilità di dare alle mamme prima del parto un tipo di cortisone, per far sviluppare gli alveoli polmonari del bambino. Secondo: quella di somministrare una sostanza, che si chiama surfattante, nei polmoni dei bambini, per farglieli aprire. Terzo: l’invenzione di microsistemi per entrare nelle piccole vene dei neonati per iniettare liquidi e altre sostanze, come antibiotici, per tenerli in vita. Questo negli anni 60 era impensabile, ma se avessero deciso che sotto il chilo di peso non li avrebbero rianimati perché tanto sarebbero morti… Tutte queste novità non ci sarebbero. E in Italia migliaia di genitori non sarebbero diventati genitori.
La ricerca è necessaria, quindi. Chi la frena? È questo un primo problema: se si pensa di mettere degli steccati alla ricerca scientifica sulla base di alcuni criteri che non sono scientifici, si blocca la ricerca stessa. La Chiesa è di tutt’altro parere: la ricerca scientifica deve andare avanti, sempre. L’unico ostacolo che ci deve essere è la dignità della persona. Se io voglio fare un esperimento su un paziente malato e lui non è d’accordo, non lo devo fare. Punto. Ma non è un impedimento. È rispetto. Mentre mettere degli ostacoli alle cure dei bambini piccolissimi sì che è bloccare la ricerca. Prendiamo la spina bifida, una malattia per la quale il Protocollo di Gronigen sull’eutanasia è ben noto: se i soldi dati per propagandare l’eutanasia li dessero per propagandare l’unico sistema che funziona per prevenire la malattia, cioè somministrare acido folico alle mamme in gravidanza, non ci sarebbero tante spine bifide. Ora, è più logico per la ricerca scientifica eliminare i bambini o curarli? Se li eliminiamo non impariamo a curarli. Lo stesso vale per la sindrome di Down. Si fa una ricerca a tappeto del bambino Down prima della nascita spesso per eliminarlo e non c’è, forse, un soldo speso per la ricerca della terapia di questa malattia. Non è detto che ce la si possa fare, ma è sciocco non provarci.
Perché non ci si prova? Perché è più semplice non farli nascere. Per la sindrome di Down c’è un esempio molto chiaro. Negli Usa negli anni 80 un bambino con la sindrome nacque e fu lasciato morire perché aveva una malformazione all’esofago. I genitori dissero: «Non vogliamo che mangi». Gli risposero che ci voleva poco a curarlo. Non vollero comunque. E lo fecero morire. In seguito a questo episodio la Corte Suprema americana emise una sentenza che obbligava a trattare il bambino disabile esattamente come il bambino non disabile. Questo ora lo stanno rimettendo in discussione.
In che modo? Secondo due criteri. Il primo è quello di dire che la qualità della vita deve essere misurata, e se la qualità della vita è al di sotto di un certo standard la vita non vale pena di essere vissuta. La seconda cosa è dire che questo deve essere deciso dai genitori: i genitori non soltanto sarebbero i tutori dei figli, ma anche i padroni e, quindi, se non se la sentono di crescere un bambino con disabilità, hanno diritto di chiedere che muoia. Sembra una cosa terribile. Eppure in vari protocolli internazionali c’è scritto che le cure possono essere sospese quando la morte
si sta avvicinando, o quando il bambino soffre in maniera terribile, oppure quando i genitori non ce la facciano più.
Quali sono i nuovi limiti su cui lavorare? Negli ultimi anni siamo arrivati a capire che il bambino, invece che a 26-27 settimane, come avveniva negli anni 80, ora può sopravvivere molto più piccolo. Il limite di oggi, teoricamente, è quello delle 22 settimane di gestazione. Questo non vuol dire che tutti sopravvivono: magari! Rimane sempre una certa percentuale, alta, che muore. E di quelli che vivono, circa la metà avrà una qualche disabilità. Ma questo non è un motivo per non provarci. Soprattutto non è un motivo per non dare una chance a tutti i bambini. Se io ho la certezza che il mio tentativo terapeutico non serve a niente, non lo devo fare: sarebbe mettere le mani addosso a qualcuno non nel suo interesse ma nel mio. Ma se ho qualche possibilità, anche una su cento, che il mio intervento possa servire, allora lo devo fare. Questo vale sempre per gli adulti. Perché non vale per i neonati?
Appunto, perché? Si sta cercando di decidere che c’è un’età della vita, un tipo di vita che vale la pena di essere vissuta. Che è quella che normalmente si chiama “giovinezza”. Non è la giovinezza anagrafica, o una giovinezza caratterizzata dalla voglia di costruire rapporti, di inventare, di stupirsi, ma quella che ha come caratteristica l’assenza di responsabilità e la possibilità di muoversi senza rispondere a nessuno. È questo l’ideale della vita. Un tempo si parlava di giovinezza per un’età della vita tra i 15 e i 25 anni, ma oggi questa giovinezza è estesa culturalmente, sia prima che dopo. Prima, perché i bambini più piccoli scimmiottano i più grandi per essere calcolati; dopo, perché anche i più vecchietti si vogliono sentire più giovani, cioè gente che non ha nessun rapporto stabile con nessuno, in cui uno da solo pensa di essere legge a se stesso. Quello che non è “giovinezza” non vale niente: è meglio che sparisca. Bambini, vecchi e disabili. Queste tre categorie nella società di oggi sono i paria, i nuovi perseguitati. Letteralmente, non valgono niente. Ci sono filosofi che spiegano, per esempio, che non soltanto il feto non è una persona, cosa già da sola assolutamente discutibile, ma non lo è neppure il bambino fino all’anno di vita: dicono che fino all’anno di vita non c’è autocoscienza e, quindi, i bambini non sono persone. Ma non basta: se una donna si permette di far nascere un bambino dopo aver visto che ha una disabilità, c’è chi propone di denunciarla per maltrattamenti. Un domani l’anziano non autosufficiente potrà sentirsi “obbligato” a chiedere di morire. Esiste sì un problema scientifico, ma anche un problema culturale.
Da dove nasce questa concezione? Da una mancanza di educazione: nessuno più dice, a parte la Chiesa, il valore della persona. Non tanto in termini religiosi, ma a livello esperienziale. Non c’è nessuno nelle scuole, per esempio, che educhi alla disabilità: tutte le classi hanno inserito un ragazzo disabile, e questo è un vanto della scuola italiana. Ma nessuno educa a come trattare questa persona e a capire che è una risorsa, non una disgrazia. È un problema educativo. Poi il resto sono conseguenze.
C’è una grande ignoranza su questi temi, soprattutto riguardo ad alcune pratiche... Certamente. Ma il vero problema è quando abbiamo a che fare con cose che non fanno “orrore”, che non sono i casi limite che fanno inorridire. E che sono, per così dire, passate come anche giustificabili! Povero bambino, si sente dire spesso: come facciamo a mettere a rischio la sua felicità sapendo che avrà il 50% di possibilità di avere una qualche disabilità? Lasciamolo morire. Questo non fa orrore: questo è un “bel discorso”. Che è ancora peggiore di quello che poi fa orrore. Allora il terzo punto è: perché non li riconosciamo “dei nostri”? Certo, manca un’educazione. Ma esiste un
problema psicologico portante, documentato in letteratura. È quello della fobia che si ha verso se stessi. Il problema di non riconoscere le possibilità agli altri, dipende dal fatto che uno su di sé non sente nessuna chance. Hanno fatto uno studio in Nuova Zelanda, di recente, in cui facevano vedere come i neonatologi che sospendono più facilmente le cure ai neonati sono quelli che hanno più paura di ammalarsi. Questo fa intuire che uno ha uno sguardo “buono” sugli altri - non nel senso che gli fa l’occhietto, ma nel senso che gli dà credito, che ci parla, che ci interagisce -, se lo
sente su di sé.
Può spiegare quest’ultima affermazione? Nel reparto dove lavoro, abbiamo iniziato in questi ultimi anni a fare ricerca scientifica nel campo del dolore del feto e del neonato proprio sulla base di questo. Il neonato viene tenuto in considerazione solo da pochi anni come persona, non solo filosoficamente, ma proprio nei reparti. Abbiamo fatto uno studio due anni fa e abbiamo visto che in Italia non si cura abbastanza il dolore del bambino; e talora il piccolo viene isolato dai genitori, cosa che non si farebbe mai con un adulto. Anni fa, in seguito ad alcune vicende personali, ho
cominciato un’esperienza per verificare cosa avviene se proviamo ad accarezzare questi bimbi, a parlarci. Sembrava di fare una cosa un po’ pazzoide, parlare con dei neonati. Ma un po’ alla volta abbiamo visto che parlandoci, accarezzandoli, dando qualche goccia di zucchero e iniziando a strutturare questa pratica, i bambini non sentivano più dolore e crescevano meglio. Allora su questa scoperta abbiamo creato dei sistemi contro il dolore, delle scale per la sua valutazione, interpretando il loro linguaggio. Siamo stati tra i primi al mondo a studiare il linguaggio del pianto
dei bambini con strumenti oggettivi, con la sua spettrometria, creando e brevettando strumenti appositi per questo, le cui linee guida sono diventate punti di riferimento a livello internazionale. È qualcosa di incredibile. Ma è accaduto solo perché c’era un’ipotesi positiva, non perché eravamo bravi noi. E questa viene solo dal fatto che qualcuno ti fa vedere che vali indipendentemente da quello che sei.
Oggi come procede il vostro lavoro? Qui a Siena, ormai, siamo un centro di riferimento mondiale per gli studi sul dolore del bambino, e quindi anche del feto. Il feto sente dolore, e quindi ha diritto di non sentirlo e ha diritto di essere curato. Abbiamo fatto studi anche sul benessere, studiato i campi magnetici e i rumori cui sono sottoposti i piccoli. Questo non l’ha fatto quasi mai nessuno. Il fatto che nelle incubatrici ci siano campi magnetici più intensi di quelli che sono permessi per stare davanti a un monitor di computer, non interessa a nessuno? Abbiamo cominciato a studiare i riflessi dei bambini dentro la pancia della mamma: come strizzano gli occhi, come si spaventano. O, ancora, come si ricordano i figli delle ballerine della danza che hanno fatto le mamme in gravidanza, o i ricordi di quelli con mamme costrette a letto durante la gestazione. Siamo entrati in un campo di ricerca fecondissimo, partendo dall’ipotesi positiva di pensare che sono persone come noi: che non parlano come noi, che non ragionano come noi,
che non pesano come noi, ma che sono esattamente come noi. E quindi hanno diritto a essere trattati bene. Perché se vado dal dentista e mi strappa un dente senza anestesia, prima mi arrabbio e poi lo denuncio, e invece al bambino posso fare un prelievo senza analgesia e non dice niente nessuno?
Quindi, ci sono i fondamenti scientifici per cambiare una legge di 30 anni fa? C’è tutto. La legge 194 dice chiaramente che l’aborto non deve essere praticato, se non nel caso di rischio per la vita di una donna, da quando il feto ha la possibilità di una vita autonoma. Il bambino oggi ha la possibilità di vivere al di fuori della pancia della mamma, realisticamente, dalle 22 settimane. Sopravvivono in pochi: in Giappone circa il 30%, da noi meno. Ma comunque alcuni vivono. E siccome la legge non parla di “sicurezza di sopravvivenza” ma di “possibilità”, la possibilità c’è. Il primo bambino sopravvissuto nato alla 22esima settimana oggi ha 18 anni. È successo a Toronto,
Canada. La legge 194 dovrebbe rispettare questa realtà dei fatti. E se tra dieci anni il nuovo limite basso per la nascita sarà 18 settimane, la legge dovrà rispettare le 18 settimane. A me la legge non piace. È una legge che tratta in maniera diversa due persone, mamma e bambino, che dovrebbero essere trattati in maniera uguale. Ma dato che c’è, che sia rispettata e applicata fino in fondo.
Sembra che il problema principale sia di stabilire una differenza tra feto e bambino. Cosa ne pensa? Il termine feto è “inventato”. Si usa da qualche decina d’anni. I Romani che parlavano di fetus intendevano esclusivamente il bambino: era il frutto, la progenie, non era il bambino prima della nascita. Ci sono due cose strane nella parola “feto”. Una è che è un termine neutro, non ha maschile e femminile. Proprio per sottolineare l’idea di “cosa” . E quante assonanze con parole come fetente, difetto, fetido... Poi, in inglese e francese si scrive con il dittongo, foetus: ma è una bugia, una sovra-latinizzazione (perché in latino si scrive fetus) per far diventare la cosa più aulica e più scientifica. Quindi il problema ce lo siamo posti adesso, di dire che qualcuno prima della nascita vale meno di dopo la nascita. Prima uno “era” dal momento in cui era concepito. Tanto è vero che il 25 marzo, il giorno dell’Annunciazione, segnava anche l’inizio del calendario a Firenze e Siena, almeno fino all’arrivo dei Medici. Il problema del feto e del bambino è fasullo. Si vuole far credere alla magia, cioè che l’aria entri nei polmoni e con un tocco magico faccia diventare qualcuno di serie B un individuo di serie A. Non è così.
Uno è una persona solo se qualcun altro lo definisce così, insomma... È sempre stato così, si è fatto coi neri, con gli ebrei. Decido che non sei una persona perché non mi piaci. Il problema non è stare a discutere se sono 21, 22 settimane o 23. Il problema è capire che uno c’è. E quando uno c’è, ha diritto di essere curato. Noi abbiamo paura, abbiamo paura della vita, di tutto. Che accada una cosa nuova, un figlio, non è più visto come un’opportunità inaspettata. L’unica cosa che si accetta dalla vita è solo ciò che si è programmato. Tutto il resto non si vuol neppure sapere che esiste, deve sparire. Tutto quello che non ci piace deve sparire. Non per cattiveria, ma per paura. Quando invece non si ha paura di questo, per qualche combinazione, per qualche amicizia - ricordo il giorno e l’ora di quando ho cambiato il mio modo di approcciarmi ai bambini - scatta l’intuizione che nella vita possa esserci un progetto buono. Allora cominci a capire che di questo progetto buono fanno parte tutte le cose, non soltanto quello che piace a te.
Paolo Perego
Tracce N. 2
febbraio 2008
Tracce N. 2
febbraio 2008
Nessun commento:
Posta un commento