mercoledì 24 dicembre 2008
Un vecchio cattolico integralista
Giovedì scorso alla scuola dell'infanzia Arcobaleno hanno fatto la recita di Natale. Bravissime le maestre che hanno organizzato il tutto: spettacolino con i bimbi vestiti da Babbo Natale, pupazzi di neve, alberi, renne, giocattoli ed elfi; canzoni cantate tutti in coro e, per i piu' grandi, recita della poesia. Dolcissimi i bimbi entusisati e calati nelle loro parti. Il tutto molto bello per i genitori e i nonni che riprendevano e scattavano fotografie.
E qui arriva il vecchio cattolico integralista: non sarebbe stato meglio fare una rappresentazione del Natale con pastori, re magi, Madonna, Giuseppe e bambin Gesù, asino e bue? Perchè, mi chiedo ancora, dobbiamo inventarci tradizioni che non esistono? Da dove viene Babbo Natale con renne e slitta volanti? e poi non erano gli gnomi ad aiutarlo? qui sono diventati gli elfi, e i pupazzi di neve gli regalano la sciarpa luminosa per vedere nella nebbia. Ma chi l'ha inventata questa cosa? Ma chi si sentirebbe offeso da una rappresentazione religiosa? chi non crede? e perchè? il Natale nasca da qui, dalla festa religiosa, è il ricordo della nascita di Cristo, ci si può credere o no ma questo è. Ci si trova a dover inventare delle tradizioni non nostre, ma neppure di nessun altro. Babbo Natale nasce come S.Nicola con i paramenti sacri da vescovo, diventa poi, grazie alla Coca Cola, il vecchio con barba bianca renne e slitta e colori bianco e rosso, perchè deve diventare il punto di riferimento delle nuove generazioni? ok non essere confessionali, ma tradizionali si. Ripeto che annullare le tradizioni religiose in nome della laicità è, secondo me, sbagliato, occorre integrarle, spiegarle, non imporle, ma nemmeno cancellarle. Occorre trovare valori condivisi, ma non serve inventarsi cose nuove.
Per un'analisi più seria e proveniente e proveniente da persona più competente rimando all'articolo di Franco Cardini apparso domenica scorsa su Avvenire
Dai presepi del meridione al nordico abete, teniamoci strette le nostre tradizioni più vive
A giudicare da certi partiti politici e da certa stampa, in Italia si sente un gran bisogno di radicamento, d’identità e di ritorno alle tradizioni più autentiche della nostra storia e della nostra gente. Splendida cosa, scelta opportuna, buona battaglia: purché non si esageri. Voglio dire due cose.
Primo: la tradizione non ha nulla a che vedere né con la pura e semplice conservazione, né con il pathos della nostalgia, né con archeologismi o folklorismi di sorta. La tradizione è un valore vivo, che muta e si arricchisce nel tempo. Essa è – come l’ha definita un grande musicista dell’Ottocento, Joseph Anton Bruckner – «memoria del fuoco, non culto delle ceneri». Il solo modo di esserle fedeli è reinventarla di continuo. Secondo: in un Paese come l’Italia, mosaico policentrico di culture reciprocamente collegate tra loro, ma tutte diverse, il vero centro della tradizione sta nel rapporto con la Chiesa cattolica e con le dimensioni comunitarie del sentimento e della pratica religiosa. Tutto il resto, a cominciare dalla lingua, è regionalistico o municipalistico; la stessa storia nazionale 'unitaria' è in gran parte un malinteso, per giunta troppo recente. Quando si parla dunque di tradizioni natalizie italiane, bisogna intendersi. Il presepio, ad esempio, è entrato profondamente nei nostri usi più cari: ma a partire dal Duecento, in seguito alla rivoluzione promossa da Francesco d’Assisi nel modo d’intendere, d’imitare e di amare Gesù nella sua nudità e debolezza. E soltanto a partire dal Sei-Settecento, a contatto con l’arte barocca e varie forme di artigianato locale, esso si è sviluppato raggiungendo risultati molto tipici e di grande qualità, ma molto diversi tra loro, soprattutto a Napoli, a Roma, nel Tirolo meridionale, in Garfagnana (Toscana del nord-ovest). L’albero di Natale, antica tradizione germanica (l’albero 'solare' del solstizio d’inverno) 'acculturata' nel cristianesimo luterano grazie a una leggenda che ne attribuisce l’origine a una visione di martin Lutero, sperduto in un bosco nella notte di Natale e salvato dal chiarore di luci apparse su un abete, è stato molto a lungo patrimonio del mondo evangelico nordeuropeo: solo lentamente è stato accettato prima dai cattolici tedeschi della Renania e dell’Austria-Baviera, quindi – non senza resistenze – dai cattolici non-tedeschi. Espungeremo pertanto l’abete carico di ornamenti colorati dall’italically correct, nel nome di una supposta «fedeltà alle tradizioni autentiche»?
Giammai: esso è ormai entrato nel nostro linguaggio tradizionale, si è certo universalizzato (si fanno alberi di natale anche a Shanghai) ma al tempo stesso ha fatto il suo ingresso anche in molte chiese. Lo si ricollega al Cristo Albero della Vita, al Cristo Asse del Mondo, e il suo carattere originariamente solare si collega agevolmente all’immagine del Cristo Sol Iustitiae. Esso è una prova evidente del fatto che le tradizioni sono qualcosa di vivo, in grado di sempre rinnovarsi. Del resto, in quanto festa invernale connessa con la fine dell’anno e quindi con quelle che nel mondo latino erano le libertates decembris – tempo di allegria, di scambio di doni e perfino di 'rovesciamento rituale dei ruoli' (l’episcopus puerorum, un fanciullo che per un giorno era simbolicamente a capo della diocesi; i padroni che per un giorno servivano a tavola gli schiavi e così via) –, il Natale conservava nella penisola italica, tramandati dalle origini pagane dei suoi popoli, alcuni residui di antichi culti vegetali. Uno di essi aveva a che fare appunto con un albero. In Toscana, durante le fatali 'dodici notti' tra il Natale e l’Epifania, doveva consumarsi lentamente sul focolare un 'ceppo', un grande tronco d’albero, al quale quando lo si accendeva si appoggiavano piccoli regali simbolici per tutta la famiglia. Il bruciare lento e costante del ceppo era di buon augurio per tutto l’anno, e dal suo scoppiettare si traevano vari auspici.
Così, ogni notte dell’intenso periodo liturgico era legata a un mese dell’anno.
E specialmente arcane erano le notti di Natale (o, in altre versioni, dell’Epifania), quando gli animali domestici parlavano e v’erano vari riti – connessi di solito col fuoco del camino o con le ceneri del focolare – per 'indovinare' il futuro.
Tutto un ampio settore del folklore natalizio, in quanto folklore di festa, riguardava il cibo. Consumare cibi carnei o dolci, ricchi di grasso o di zucchero, era di buon augurio. Nel giorno di Natale, in omaggio al Bambino che nasce, si privilegiavano i dolci, che sono alimento preferito appunto dai bambini: ma il cibo principale restava comunque l’alimento quotidiano ed eucaristico, il pane, che si arricchiva però di uvetta, noci, pinoli, frutta candita, uova e burro a seconda delle tradizioni (panettone lombardo, mandorlato piemontese, treccia veneta, pandolce ligure, buccellato lucchese, panpepato emiliano, parrozzo abruzzese e così via). Cibo natalizio tradizionale in Italia, ancora, il grande volatile arrosto o più spesso bollito, magari con l’aggiunta di salse (come le mostarde di frutta lombarde): forse un ricordo germanico, legato al consumo di cigni o di oche considerati animali 'solari' e quindi propri delle feste solstiziali. Ma tra Natale ed Epifania si compiva di solito anche l’annuo sacrificio dell’animale italico da carne per eccellenza, il maiale: e i bolliti di maiale accompagnati con piccoli legumi, le lenticchie (simbolo di prosperità in quanto la loro forma ricorda le monete), erano – e restano – obbligatori per Capodanno. Infine, fortissimo in tutta la penisola il culto dei 're' magi: specie in Lombardia e nell’arco alpino, dove la festa e le reliquie dei tre 'santi re' sono oggetto di venerazione particolare da quando, nel 1164, il cancelliere imperiale Rainaldo, arcivescovo di Colonia, trasferì i loro resti da Milano alla sua cattedrale sul Reno. Natale, Capodanno ed Epifania sono feste punteggiate di riti paraliturgici a carattere popolare, tra cui emergono le processioni come quelle 'della Stella', evidentemente dedicata ai magi, nell’arco alpino (celebre quella di Palù in provincia di Belluno), oppure le 'Pasquelle' e 'Befanate' dal Veneto alla Lucchesia alle Marche. Comunissime anche le 'Feste del Fuoco', grandi falò in evidente rapporto – ancora una volta – con il solstizio, ma che continuano nel nostro folklore fino ai roghi invernali purificatori di carnevale (il celebre 'Brucialavecchia'). Molti noti e suggestivi i 'Fuochi d’Inverno' sulle Alpi – a volte fiaccolate di sciatori –, i 'borielli' mantovani, i 'pignauri' udinesi e così via. Quel che il 'fuoco sacro' caccia è l’anno vecchio, con i suoi influssi malsani (le febbri invernali). Lo si vede bene a Poggio Catino presso Rieti, dove la notte di San Silvestro si celebra un grande veglione ch’è in realtà un rito esorcistico dell’anno vecchio.
Anche a Roma, il tempio del Sol Invictus è divenuto la chiesa di San Silvestro: e il rito solstiziale si è mutato nella celebrazione cristiane dell’Anno Nuovo. E il buon vecchio Babbo Natale, con i suoi abiti bianche e rossi e la barba candida?
È un travestimento di san Nicola, vescovo di Myra e di Bari, generoso portatore di doni che nel Nordeuropa ha mantenuto il suo ruolo (mentre in Italia settentrionale i doni li portano il Bambino Gesù o i Magi; e, nel Meridione, talora 'i morti', cioè gli antenati). Ma ai primi del Novecento la ditta della Coca Cola ha avuto l’idea di laicizzare e 'paganizzare' il vescovo Nicola, che da 'Santa Klaus' è divenuto Babbo Natale, mutando i paramenti episcopali in un ricco abito da guidatore di slitte nordico. Si dovrebbe espungere Father Christmas dalle nostre tradizioni: ma ormai – grazie a Walt Disney e a John R.R. Tolkien – c’è entrato alla grande. Teniamocelo. Ma che non accada più (e alludo all’orribile Halloween, da combattere con tutte le forze nel nome della nostra bella festa di Ognissanti).
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